La Dea di Rapino. Mitologia, storia e tradizioni popolari alle falde della Maiella.

In copertina: la Dea di Rapino, Museo Archeologico nazionale La Civitella, Chieti ‐ Foto Abruzzo storie e passioni

Prima parte

Dea o Sacerdotessa?

Nella collezione del Museo Archeologico nazionale La Civitella di Chieti, spicca una piccola statua bronzea, probabilmente risalente al III sec. a.C., denominata la Dea di Rapino. Per conoscere la storia delle popolazioni Italiche, in questo caso i Marrucini che abitavano i territori a ridosso della Maiella e delle sue vallate, questo manufatto non è meno importante dei due divi rappresentativi del vicino Museo Archeologico di Villa Frigerj: il Guerriero di Capestrano, scolpito nella pietra da Aninis nel VI secolo a.C. e ritrovato per caso da un contadino nei pressi di Ofena e l’Ercole Curino, modellato nel bronzo in Grecia nel III sec.a.C. e ritrovato vicino Sulmona.

Nel 1932, due anni prima del ritrovamento del Guerriero italico, la statuina (11,60 cm) fu ritrovata tra i boschi della Maiella, in una grotta situata a monte del paese di Rapino. Il ritrovamento seguì una  precedente importante scoperta, avvenuta nei pressi della stessa grotta: una tavoletta  in bronzo con l’incisione di un regolamento in lingua marrucina. Secondo alcune interpretazioni, la statuina rappresenta una dea, ma potrebbe trattarsi di una sacerdotessa offerente (alla divinità), oltretutto una iconografia molto diffusa nel territorio in questione.

Altre statue votive le troviamo a Vasto, tra i reperti esposti nel Museo Archeologico presso Palazzo d’Avalos, in questo caso l’offerente è un guerriero; e a  Guardiagrele, nel Museo Archeologico F.Ferrari. Ma la raccolta più cospicua di questi cosiddetti “idoli” trova spazio in una sala di Villa Frigerj. Si tratta della ottocentesca Collezione Pansa, dal nome dell’avvocato sulmonese, nonché grande collezionista, Giovanni Pansa (Sulmona, 1865-1929).

La larga diffusione delle statuine votive, insieme a quelle celebrative riferite in particolare al dio Ercole, eroe combattente, simbolo di forza e coraggio –  per questo fonte di ispirazione, oltre che di venerazione, per i guerrieri italici, in particolare i Sanniti – diede luogo alla nascita di botteghe locali per la realizzazione di questi bronzetti, destinati al tempio o al corredo dei larari domestici. Anche per questo il manufatti  presentano varie forme e posture.

La Dea di Rapino è rappresentata vestita con una lunga tunica, avvolta, scrivono le fonti, da “un ampio mantello”. Ma osservando con attenzione, l’indumento, che appare striato come la seta, è privo di chiusura al collo, più che un “mantello” fine a sé stesso forse si tratta di un accessorio indossato per celebrare un rito. Questo porta a ipotizzare che la statua votiva rappresenti una sacerdotessa.

I capelli, raccontano le fonti, sono raccolti in “una treccia”, ma a mio avviso potrebbe trattarsi di un copricapo, non per ripararsi dal freddo ma, insieme alla tunica e al “mantello”, elemento del vestiario indossato per celebrare i riti nella grotta-tempio.

La figura reca in una mano un piccolo oggetto, secondo alcuni si tratterebbe di una “formella di pane”, ma potrebbe essere una patella (piattino), ipotesi avvalorata dalla posizione dell’altra mano, distesa e col palmo aperto: sembra voler alludere alla richiesta di una offerta, tipica iconografia delle statuette votive.

Il panetto (o piattino), riconoscibile dalle tre spighe disegnate, forse simboleggia la gratitudine e la benevolenza della divinità, che così ricambia le offerte richieste e ricevute con l’altra mano. L’iconografia delle spighe non è, come qualcuno sostiene, esclusiva della Dea di Rapino, ma la ritroviamo rappresentata in numerose statuine bronzee, come quelle della citata Collezione Pansa, provenienti da diverse località abruzzesi.

Ogni statuina esprimeva una volontà individuale, un omaggio per la grazia ricevuta, una richiesta di aiuto alla divinità, oppure un semplice atto devozionale. Anche la statua che rappresenta l’Ercole Curino assume un significato votivo e devozionale. Il suo proprietario, un certo Marco Attio Peticio Marso, probabilmente un ricco commerciante della Valle Peligna che aveva contatti con la Grecia ellenistica, fece incidere sul bordo del piedistallo la seguente dedica: Il voto assolse il lieto come giusto.

Le Dee Madri

La statuina di Rapino fu realizzata per onorare una divinità femminile, forse Cerere, dea-madre legata alla natura, venerata dai Marrucini e servita dalle sacerdotesse preposte alla protezione del tempio, alla custodia del suo tesoro e alla organizzazione dei suoi riti, tra i quali, secondo alcune fonti, quello della Prostituzione sacra.

Il ritrovamento nella stessa grotta di una piccola pietra di diaspro, sulla quale sarebbe inciso il dio Giove, conferma la destinazione pagana della grotta-tempio e soprattutto definisce meglio l’identità della dea. L’elmo e la lancia fanno pensare anche a elementi iconografici riconducibili a Marte, com’è noto il dio della guerra, ma nella sua prima fase cultuale Marte era il dio che proteggeva i campi e il raccolto. Tuttavia, come vedremo più avanti, grazie al ritrovamento della Tabula Rapinensis il dio di riferimento dovrebbe essere proprio Giove.

La presenza delle sacerdotesse nella Grotta di Rapino configura dunque un luogo sacro dedicato alle divinità femminili. Restando in Abruzzo ritroviamo una dedicazione simile nell’antico insediamento peligno di Ocriticum, vicino Cansano e Sulmona, laddove furono ritrovate statuette votive e tracce di profumi, unguenti e cosmetici, il cui uso era finalizzato al culto di Cerere e Venere, divinità femminili spesso connesse con il culto di Giove.

Le forme di aggregazione sociale in luoghi definiti “sacri” dalle comunità antiche, che siano aree cultuali monumentali, come il Tempio di Ercole Curino a Sulmona, o realtà più piccole, come la grotta in esame, rivestivano sempre un ruolo fondamentale, che andava oltre l’aspetto religioso. Erano luoghi identitari, i cui riti influenzavano anche la sfera politica, culturale ed economica della comunità.

Theodor Mommsen e Ambrogio Carabba

Per meglio comprendere l’importanza della Grotta del Colle, talvolta chiamata la Grotta di Rapino, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo e arrivare al 1846, quando lo storico e archeologo tedesco Theodor Mommsen (1817 – 1903) – un gigante della storiografia, Premio Nobel alla Letteratura nel 1902 grazie soprattutto alla sua Storia di Roma – parla per la prima volta di una “Lamina in bronzo”, risalente al III sec. a.C. , ritrovata nel 1841  nella grotta in esame, quasi un secolo prima del ritrovamento della statuina offerente.

Questo importante reperto, vera chiave di lettura della misteriosa grotta, fu rinvenuto sotto un cumulo di pietre che ricoprivano uno scheletro, ritrovato insieme a un anello in avorio. La lamina bronzea era italica, mentre la sepoltura era di epoca medievale, attinente una piccola chiesa oggi non più esistente, forse voluta dai benedettini e costruita nei pressi della grotta.

Lo straordinario ritrovamento, avvenuto grazie allo storico e archeologo Ambrogio Carabba, nato ad Atessa nel 1817 ma molisano di adozione (Montenero di Bisaccia), all’epoca poco più che ventenne, ha permesso di conoscere i riti celebrati nella grotta e formulare ipotesi circa il loro significato.

Il piccolo (cm. 15×15) manufatto bronzeo, denominato Tabula Rapinensis, riporta nell’antica lingua marrucina alcune regole che le celebranti, le sacerdotesse della grotta-tempio, dovevano seguire nella casa divina di “Ceria Iovia” (Cerere Giovia). Questa la traduzione (1):

Presi gli auspici gli déi sono favorevoli. Per legge del popolo marrucino: le ancelle giovie assegnate al servizio nell’arce Tarincra di Giove padre, dopo che il popolo marrucino avrà preso gli auspici su di esse, siano assegnate al nuovo servizio sacro, la sacerdotessa giovia le assegni al giusto rito di Ceria giovia per accrescerne il tesoro. Gli déi benevoli hanno stabilito che nessuno tocchi l’offerta dello scambio se non alla fine del giusto rito.

Il giusto rito delle ancelle giovie

Secondo l’interpretazione ad oggi prevalente (2) della Tabula Rapinensis, la grotta sacra dominava l’area cultuale chiamata “Arce Trarinca”, protetta da Giove. Si tratterebbe di un villaggio abitato dai Marrucini esteso sull’altipiano poco più a valle, chiamato localmente in modi diversi: “Civita Danzica”, “Piana del Colle”, “Piana della Civita”.

Probabilmente si tratta dell’antica città dei Marrucini denominata Touta Marouca, ovvero Popolo dei Marrucini. Un insediamento che rientrava nel sistema di fortificazioni italiche, i cosiddetti “ocres” osco-sabellici, presenti in Abruzzo anche in altre località, ad esempio sul monte Pallano di Tornareccio con le mura ciclopiche (peraltro oggetto di un nostro articolo) e a Montenerodomo, sempre nel chietino.

Il tempio di Touta Marouca probabilmente era ubicato in questa grotta nella quale si venerava Cerere – nome latino della Dea Demetra – indicata sulla Tabula Rapinensis come “Ceria”, insieme a Giove, e in loro onore si celebravano riti ancestrali, codificati da precise regole custodite dalle sacerdotesse.

I riti tradotti sono citati come “il giusto rito delle ancelle giovie”. Secondo l’interpretazione prevalente (3) questi riti sarebbero riconducibili alla “Ierogamia”, la “Prostituzione sacra”, ovvero la rievocazione dell’unione carnale tra un mortale e una divinità (nella mitologia il riferimento era a Zeus ed Era) al fine di “accrescere il tesoro” (della grotta-tempio) e ottenere i buoni auspici, simboleggiati, come abbiamo visto, dalle spighe disegnate sulla mano della statuina, quindi fertilità, prosperità e fecondità del terreno, delle piante e degli animali dell’Arce Trarinca.

Ma non avveniva nessun pagamento, piuttosto si trattava di un’offerta alla Dea, e nemmeno si consumava una prestazione fine a sé stessa, in quanto si trattava di un rito religioso che non aveva nulla a che fare con l’accezione moderna della “prostituzione”.

Il rito rientrava nella sacralità devozionale, in questo caso dei Marrucini guidati dalle sacerdotesse, all’unione fisica per raccomandare agli déi  (Giove e Cerere), i buoni auspici, la fertilità, anche nell’agricoltura, nonché creare, con le offerte, un tesoro utile al sostentamento del tempio.

Riti simili si celebravano anche nella Lidia (Turchia), a Byblos (Fenicia), a Corinto (Grecia) e nella Magna Grecia, tra Locri ed Erice. È bene precisare che la “prostituzione sacra” desunta dalla traduzione della Tabula Rapinensis (3) è una ipotesi. Così come sono mie le  interpretazioni esposte nella descrizione della statuina “Dea di Rapino”, la cui datazione è dibattuta tra gli studiosi tra il VI e il III sec.a.C., essendo la Grotta del Colle un luogo di culto frequentato dal Paleolitico al periodo ellenistico, fino al Medioevo.

Alla ricerca della grotta perduta*

Dopo il suo ritrovamento la Tabula Rapinensis fu portata a Berlino, dove rimase per circa un secolo, fino al 1945. Durante le fasi della Seconda guerra mondiale, la famosa “Presa di Berlino”, con la vittoria della Russia sovietica e il suicidio di Hitler, la Tabula Rapinensis fu prelevata dai russi e portata a Mosca, dove si trova tuttora. Oggi fa parte della collezione del Museo Puskin.

Il museo moscovita è un po’ fuori mano, ma quello di Chieti no e nemmeno il paese di Rapino, con la misteriosa grotta e la intrigante storia ad essa riferita, oltre ad altre piacevoli sorprese legate alle tradizioni locali, come il Museo della Ceramica e un’antica e singolare tradizione religiosa, una processione di bambine, che apparentemente (secondo alcuni) sembra collegarsi alle storie ancestrali della Grotta del Colle, ma in realtà, come vedremo, non ha nessuna correlazione.

Dopo aver fotografato la “Dea” al Museo chietino della Civitella decido quindi di visitare Rapino per cercare tra i sentieri nascosti nei boschi della Maiella, la grotta dove fu ritrovata la statuina votiva, il diaspro con Giove intagliato e la Tabula Rapinensis conservata a Mosca. I gentili rapinesi ai quali chiedo informazioni su come arrivare alla grotta mi dicono che il sentiero è “breve e facile, fattibile in massimo dieci minuti”, ma una volta sul posto scopro che non è proprio così…

Parcheggio la macchina all’inizio di una stretta strada sterrata (impraticabile a causa delle buche) indicata da una segnaletica visibile transitando sulla strada provinciale numero 539 come “Grotta del Colle”. Dopo un po’ di cammino mi rendo conto che è l’unica indicazione e questo contribuisce a confondermi quando ad un incrocio del sentiero trovo una generica indicazione che informa di un “percorso per le cave in mountain bike”. La parola “cava” l’ho associata a “grotta”, nella lingua italiana sono pur sempre sinonimi, ma mi accorgo che non è quella la strada esatta.

Quindi torno indietro e proseguo seguendo l’altro sentiero. Mi consolo ammirando il paesaggio, spizzicando more, tra rovi e siepi di felci, frutteti, uliveti e prati in fiore, ma poco prima di arrivare all’ingresso del bosco mi imbatto con un serpente che mi si palesa sbucando all’improvviso sul sentiero. Mi fermo per cercare di fotografarlo, ma alla mia vista, dopo aver fatto un salto di almeno mezzo metro, probabilmente perché più impaurito di me, sparisce tra le siepi che costeggiano il sentiero. Questa è una di quelle volte in cui durante i miei numerosi viaggi in ogni angolo d’Abruzzo per scoprire le storie e le passioni di questa regione, mi sono chiesto perché me ne vado in giro da solo in posti così isolati. Una volta addentratomi nel bosco faccio ancora un po’ di strada in salita, seguo un sentiero che conduce in un anfratto che sembra non avere più nessuna prosecuzione. Non si vede nessun sentiero che permetta di proseguire il cammino, né tantomeno una segnaletica. Eppure la grotta dovrebbe essere proprio qui vicino…

Pensando di aver sbagliato strada torno di nuovo indietro e lungo il sentiero intravedo un signore che cammina a passo veloce. Un contadino del posto immagino, a cui potrò chiedere informazioni. Invece scopro che è un turista americano arrivato in questi sottoboschi solitari della Maiella nientemeno che da Miami. Anthony, questo il nome del viandante, non parla italiano, ma col mio inglese (non proprio perfetto) riesco a comunicare. L’americano mi racconta che viene ogni anno qui a Rapino in vacanza perché è innamorato di posti immersi nella natura incontaminata, in cui ama fare ogni giorno lunghissime passeggiate respirando aria pulita, ammirando la Maiella. Sua nonna era di Rapino, si imbarcò su una nave agli inizi del ‘900, emigrante come tanti altri abruzzesi per cercare fortuna in America, un argomento che abbiamo raccontato nell’articolo “Ripa Teatina, la storia di Rocky Marciano”.

Anthony di Miami conosce questi posti meglio di me e gentilmente mi indica il sentiero. Ma poco dopo scopro che è completamente nascosto dalla fitta vegetazione, in pratica è letteralmente invisibile. Più che in un bosco sembra di trovarsi in una foresta, ma questo rende più avventurosa l’escursione “alla ricerca della grotta perduta.” Con un po’ di fatica mi faccio strada tra rami e rovi. Superata una irta salita, resa molto scivolosa dal fango, in questo tratto molto umido bisogna fare molta attenzione, finalmente scorgo l’ingresso della grotta. Il luogo sembra magico, ma anche un po’ sinistro, sarà perché sono arrivato sin qui da solo. All’interno della grotta la temperatura scende improvvisamente. Lo stillicidio delle gocce d’acqua, che cadendo dall’alta volta coperta da stalattiti è amplificato dall’acustica naturale della cavità rocciosa, rende lo scenario misterioso e affascinante. Un luogo incantato, non a caso scelto migliaia anni fa dalle sacerdotesse marrucine

* Ritorno alla Grotta del Colle

Sono tornato a visitare la Grotta del Colle nella estate del 2025, circa tre anni dopo il presente articolo, ho constatato diversi miglioramenti: all’inizio del sentiero, ora raggiungibile attraverso la strada sterrata non più piena di buche, c’è un piccolo parcheggio e una apposita segnaletica indica la direzione della grotta; il sentiero è stato sgomberato dalla folta vegetazione, ed ora è riconoscibile; la salita umida e scivolosa che conduce alla grotta è stata dotata di scalini in legno inseriti nel terreno, corde e staccionate nuove.

Il serpente della Grotta del Colle e la Dea Angizia

Angitia, figlia di Eeta, per prima scoprì le male erbe, così dicono, e maneggiava da padrona i veleni e traeva giù la luna dal cielo; con le grida i fiumi tratteneva e, chiamandole, spogliava i monti delle selve. (Silio Italico)

Il serpente incontrato durante l’escursione avventurosa alla Grotta del Colle mi ha ricordato, a proposito di divinità femminili legate alla Madre Terra, come appunto sembra ricondurre anche la Dea di Rapino, un’altra dea “abruzzese”, Angizia, anch’essa venerata dalle popolazioni Italiche, in questo caso da quelle un tempo stanziate nella Marsica: i Marsi, ma anche nell’area peligna. Secondo le fonti Angizia sarebbe colei che domina i serpenti in quanto conoscitrice delle arti curative, in particolare le erbe contro gli avvelenamenti. Dunque anche Angizia era una Dea Madre, legata alla natura e, come la Dea di Rapino, venerata in un bosco “sacro”: il “Lucus Angitiae”, situato a ridosso dell’allora Lago del Fucino.

Tempo fa fotografai nel Museo Paludi di Celano la intrigante statua in terracotta che raffigura (secondo l’attribuzione prevalente) Angizia, rinvenuta nel 2003 nella Piana del Fucino, nei pressi di Luco dei Marsi (vedi galleria fotografica). Si tratta di una statua italica risalente al III sec. a.C , la stessa epoca della Dea di Rapino, con un enigmatico viso (in parte mancante), uno straordinario panneggio, che sembra rinascimentale, meduse scolpite sul trono, fiori e zampe di leoni, questi ultimi ricordano l’iconografia della Dea Cibele, altra dea rientrante nel novero delle divinità femminili considerate le “Grandi Madri” della natura.

Sulla scia del culto alla Dea Madre soprattutto le donne erano le custodi delle antiche conoscenze legate alle erbe, sia curative, attinenti alle prime arti mediche, e sia “magiche”, per sconfiggere sortilegi e “malocchi”. Quest’ultima “conoscenza”, considerata una dote tramandata da donna a donna, nel Medioevo contribuì ad alimentare le terribili persecuzioni attuate dai famigerati Tribunali della Santa Inquisizione contro le donne, accusate di stregoneria e per questo talvolta condannate al rogo.

Escluso, come vedremo, qualsiasi collegamento tra la Dea di Rapino e una processione di bambine che si tiene a Rapino dal 1794 nel mese di maggio, credo invece, per restare in Abruzzo, siano plausibili quelle fonti che ipotizzano la derivazione pagana (dal culto di Angizia) della Festa dei Serpari di Cucullo, i cui riti legati ai serpenti e alla festa di San Domenico, protettore contro la rabbia, si celebrano anche a Pretoro, a pochi chilometri da Rapino. Così come la festa dei Faugni di Atri, celebrata oggi nell’ambito della Immacolata Concezione, ha la sua matrice pagana nei falò dei “Faunalia”, su questo argomento rimando all’articolo “Atri, la Notte dei Faugni”.

La Grotta-nascondiglio

La Grotta del Colle è stata testimone di altre storie rimaste impresse nella memoria collettiva di Rapino. In questo caso non c’entra la mitologia, ma la vita vera, che a volte non è sempre facile. Sono i primi ricordi d’infanzia del sig. Roberto D’Amore, rapinese di 83 anni, che casualmente incontro nella piazzetta davanti al Museo della Ceramica, nei pressi di un bar, ritrovo pomeridiano dei paesani, in maggioranza pensionati che amano passare il tempo chiacchierando e giocando a carte.

I ricordi della prima infanzia di Roberto non sono ricordi sereni e spensierati, come quelli che ogni bambino del mondo dovrebbe sempre avere, ma sono ricordi che lo riportano alla Seconda guerra mondiale, quando, durante l’invasione tedesca e i bombardamenti, veniva preso in braccio da sua madre per correre lontano dal centro abitato e rifugiarsi, insieme agli altri paesani, in quella grotta.

Sono ricordi di guerra, contrassegnati dalla “paura e dalla fame” per tanti abruzzesi, come quelli rifugiati nelle grotte vicino Canosa Sannita, affamati e al freddo durante il Natale del 1943; e gli ortonesi, molti rifugiati nelle gallerie della linea ferroviaria Adriatica durante i bombardamenti sulla città.

Storie che abbiamo raccontato negli articoli precedenti, in particolare in “Ricordi di guerra, storie di Francavilla e Ortona”. Anche gli anziani dell’epoca, racconta Roberto, raccontavano aneddoti sulla Grotta del Colle, quel luogo misterioso dove i ragazzini usavano recarsi per curiosità e spirito di avventura. “Quella grotta” dice Roberto “era il nascondiglio dei Briganti”.

Galleria fotografica relativa alla prima parte

Guerriero di Capestrano ed Ercole Curino, le star del Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, Villa Frigerj di Chieti  – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

La “Dea di Rapino”. Dettaglio del pane con le spighe, o piattino per l’offerta, e il piccolo diaspro intagliato esposto insieme alla statuina – Museo Archeologico Nazionale La Civitella, Chieti – Foto e video Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Theodor Mommsen ritratto nel suo studio da Ludwig Knaus – Nationalgalerie, Berlino –  40 mila volumi della sua preziosa biblioteca in una notte d’estate del luglio 1880 andarono in fumo a causa di un incendio causato da una candela. Anni dopo, nel 1903, un nuovo incendio, i libri si salvano ma Mommsen rimase ferito mentre cercava di salvare antichi manoscritti.

La Tabula Rapinensis nel suo formato reale (15×15) riprodotta su una maiolica della manifattura ceramica di Rapino – Foto Leo De Rocco

Rapino, il sentiero per la Grotta del Colle poco prima di addentrarsi nel bosco. Si intravede in lontananza Anthony, un gentile turista di Miami  – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino – Il sentiero finisce in questo anfratto, completamente nascosto dalla fitta vegetazione – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino ‐ L’ingresso alla Grotta del Colle ‐ Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino – Grotta del Colle – Foto Leo De Rocco – per maggiore sicurezza consiglio di effettuare l’escursione alla grotta in compagnia e non in solitaria.

Dea Angizia (o forse Dea Cibele) Museo Paludi Celano – Luco dei Marsi, sito archeologico di Angizia, Lucus Angitiae – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Diana (Artemide per i greci), Dea della Natura selvaggia – affresco del I sec.d.C. proveniente da Villa Arianna Castellammare di Stabia – Museo Archeologico Nazionale Napoli – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Una dea o musa nel dettaglio di un grande parato settecentesco in lino e seta dipinti – Museo Diocesano Lanciano – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

I fitti boschi di faggeta della Majella, tra Rapino e Pretoro – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Seconda parte

Tradizioni popolari

A Rapino si celebra da circa due secoli, ovvero qualche decennio prima dell’anno in cui fu ritrovata la Tabula Rapinensis, una singolare processione tutta al femminile, che vede come protagoniste le bambine del paese, ma di riflesso il rito coinvolge anche le altre donne della famiglia, le madri e le nonne, in quanto ad esse è affidato il compito di vestire le bambine e adornarle con i gioielli dell’arte orafa abruzzese.

Si tratta della cosiddetta “Processione delle Verginelle”. Le bambine dai 6 ai 13 anni rendono omaggio ogni anno (l’8 maggio) alla Madonna del Carpineto, per ringraziarla del miracolo concesso al paese nel lontano 1794 quando, dopo le preghiere rivolte alla Madonna affinché intercedesse per far cessare la carestia causata dalla siccità, improvvisamente iniziò a piovere. Secondo il racconto popolare, già prima del miracolo, nel 1786, “La Madonna apparve su un albero di carpino a un giovane contadino”.

L’8 maggio le bambine si recano in processione vestite di bianco e adornate di gioielli tradizionali, preziosi che simbolicamente saranno poi donati alla Madonna del Carpineto. La processione ha inizio dalla chiesa parrocchiale, situata nel centro del paese. Il corteo poi raggiunge, più a valle, la basilica, chiamata dai rapinesi “Madonna dell’Acqua”.

Questa tradizione, a mio avviso, non ha nessun nesso con la Dea di Rapino e con le relative storie mitologiche, in quanto i citati reperti archeologici di epoca Italica furono ritrovati nella Grotta del Colle e nelle sue vicinanze in epoche successive al 1794 e al 1786, l’anno dell’apparizione mariana miracolosa “sull’albero di carpino”. Come abbiamo visto nel 1841 fu ritrovata la Tabula Rapinensis e nel 1932 la statuina offerente.

Oltretutto non è raro trovare in Abruzzo storie popolari che raccontano di eventi atmosferici estremi, pregiudizievoli dei raccolti agricoli, seguiti da miracoli e da quel momento celebrati con il coinvolgimento di bambine come forma di devozione e ringraziamento, fino alla loro storicizzazione. Cito come esempio la storia dei Pellegrini di Vacri, di cui scrissi un dettagliato reportage in questo blog.

Nella storia vacrese si narra di violente grandinate, di miracoli e di bambine elette ogni anno dai fedeli per essere rappresentati nel secolare pellegrinaggio, effettuato piedi e di notte per decine di chilometri da Vacri a Francavilla al Mare, a maggio, il “Mese Mariano”. Sull’argomento rimando all’articolo. “I Pellegrini di Vacri”.

Le ragazzine di Vacri sono dunque le protagoniste di quella tradizione, così come le bambine di Rapino e i bambini vestiti come angioletti a Loreto Aprutino, nel tradizionale rito dedicato a San Zopito, in cui di rievoca l’interruzione dell’aratura di un terreno durante il passaggio delle reliquie del santo. Sulla storia completa si veda in l’articolo: “Loreto Aprutino, il Ponte del Capello”.

Parimenti si trovano molte similitudini nelle storie popolari abruzzesi che raccontano di apparizioni mariane a giovanissimi contadini, disperati per la siccità che colpiva i loro campi, e la successiva costruzione, per grazia ricevuta (la salvifica pioggia) di cone o chiese votive, come ad esempio a Pietranico e Alanno con gli Oratori Mariani e appunto qui a Rapino con la Chiesa della Madonna del Carpineto. Anche questo tema è stato ampiamente trattato in questo blog nell’articolo: “Pietranico e Alanno e. Arte, fede e tradizione”.

Oltretutto la prima citazione sull’intreccio tra miracoli, condizioni meteorologiche e agricoltura, deriva dall’Antico Testamento, laddove si racconta del ritiro sul Monte Carmelo del profeta Isaia e l’apparizione della Madonna, futura madre di Gesù, su una nube e con essa la pioggia, che salvò dalla devastante siccità Israele. Mi sembra dunque evidente che le tradizionali processioni e i riti celebrati in Abruzzo durante il Mese Mariano, derivino dalle sacre scritture, da eventi miracolosi e dalla devozione popolare contadina, non da storie mitologiche.

Il paese dei ceramisti

Il nome del paese è legato anche alla ceramica, dopo Castelli (Te) è infatti Rapino il centro più importante nella storia della ceramica artigianale regionale. Non a caso, passeggiando per le strade del centro storico si fanno notare le colorate maioliche che indicano i bar, i numeri civici delle case e della sede della Polizia municipale.

Come in ceramica sono le decorazioni, firmate Cascella, all’interno della piccola Chiesa di Santa Rita, ma anche nella sala consiliare del Comune, persino alcuni oggetti, recipienti e contenitori, che ho notato sui tavoli di un noto ristorante del centro: Il Tiglio. Esisteva dunque una fiorente attività di bottega, con nomi importanti nella storia della ceramica: Raffaele Bozzelli, fu il primo nel 1816, seguirono i Bontempo, Fabio e Fedele Cappelletti, i Vitacolonna, i De Nardis, fino ai Cascella.

Alle porte del paese, nella piazza intitolata a Fedele Cappelletti (Rapino, 1847 – 1920) – considerato tra i maggiori pittori ceramisti italiani – si trova il Museo delle Ceramiche di Rapino, che ospita una pregevole collezione di ceramiche risalenti all’800 e fino alla metà del ‘900. L’edificio è un ex convento seicentesco, in cui si organizzano anche concerti, convegni e mostre d’arte. Una sala del museo è adibita a laboratorio di produzione e decorazione delle ceramiche, possono partecipare, oltre alle scolaresche, anche i turisti.

Le finestre del museo si affacciano sull’antico quartiere dei ceramisti: il borgo San Rocco, non lontano dalla chiesa della Madonna del Carpineto. Qui si trova la casa-bottega di Fedele Cappelletti, la bottega dei Vitacolonna e, poco più a valle, quella dei Bozzelli.

La tradizione della ceramica di Rapino è oggi quasi scomparsa, nel paese sono rimaste solo alcune botteghe, ne visito una che ha attirato la mia attenzione mentre fotografavo gli esterni della piccola chiesa intitolata a Santa Rita, un edificio dalla architettura eclettica, vagamente neo romanica, le cui pareti dell’unica navata ospitano pannelli in ceramica risalenti ai primi anni ’50 del secolo scorso, che raccontano episodi della vita della Santa di Cascia, realizzate da Gioacchino Cascella, figlio di Basilio, nato a Pescara nel 1903.

La bottega si trova a quattro passi dalla chiesa. La titolare, Giuliana Santovito, professoressa d’arte, mi mostra l’atelier e l’annesso laboratorio dove vengono eseguite le decorazione e la cottura, nel mentre mi illustra le fasi di lavorazione, in particolare la cottura in appositi forni:

“La produzione comprende soprattutto ceramiche in stile classico abruzzese, compreso quelle simbolo dell’artigianato rapinese con le sue tipiche decorazioni: il Fioraccio, dai colori vivaci del rosso, blu, arancio, giallo e tutte le tonalità del verde della tavolozza; poi il Gallo; la Rosaspina; il Tombolino; la Cancellata; il Tronchetto con gli uccellini. La produzione artigianale comprende anche preziosi manufatti per ornare la donna, sempre dipinti a mano poi cotti ad alte temperature nei forni del laboratorio, come anelli, collane e spille.”

Mentre visito la bottega ci raggiunge il figlio di Giuliana, Terenzio. Il ragazzo fin da bambino apprese dalla madre i processi di produzione, decorazione e le tecniche di cottura delle ceramiche. In seguito Terenzio creò una propria linea, distinta da quella tradizionale. Il suo è uno stile innovativo, con riferimenti artistici a Magritte e Dalì, e in genere al Surrealismo e al Simbolismo e le tecniche di cottura giapponese, per la produzione delle ceramiche in stile “Raku”, dai colori e smalti cangianti. Creazioni accattivanti richieste anche da una clientela giovane.

Rapino da scoprire

Al turista un po’ frettoloso Rapino può apparire come un luogo di passaggio, lontano dai clamori del turismo di massa, sarà per quel cartello stradale che nel centro del paese indica “tutte le direzioni” e per le vicine piste da sci della Majelletta, spesso molto affollate nel fine settimana dal turismo mordi e fuggi.

Rapino invece è un paese che va scoperto senza fretta, partendo proprio dalla sua storia più antica, sospesa tra realtà e mitologia, per poi conoscere le tradizioni e l’artigianato della ceramica di antica memoria che, seppur fortemente ridotto rispetto alla gloria di un tempo, conserva a fatica ancora piccoli spazi degni di nota e coinvolge anche le nuove generazioni.

Rapino è un piccolo paese che ho percepito come discreto, custodisce timidamente i suoi tesori, come le preziose pale d’altare nella chiesa di San Lorenzo, ma basta soffermarsi per scoprirli piacevolmente.

Sono tante le escursioni segnalate nei dintorni, qui ci troviamo nel Parco Nazionale della Maiella, ed è piacevole passeggiare tra le silenziose vie del centro, tutte indicate con colorate maioliche dipinte a mano, ascoltare un concerto di musica nell’ex convento di Sant’Antonio e magari partecipare, insieme ai giovani e ai bambini, a un laboratorio organizzato nel Museo delle Ceramiche, per creare e decorare maioliche, così come fanno i maestri artigiani.

Copyright © Riproduzione Riservata – derocco.leo@gmail.com Tecnico della valorizzazione dei Beni Culturali ed Ecclesiastici Regione Abruzzo ‐ Note e fonti dopo la galleria fotografica

Galleria fotografica ‐ seconda parte

Uno scorcio di Rapino, dalla chiesa del patrono San Lorenzo – Torre del Monarca – Dettaglio dei pannelli in ceramica dipinti da Gioacchino Cascella, Sala consiliare del Comune di Rapino – Foto Leo De Rocco

Rapino, Processione delle Verginelle – Foto Pasquale De Antonis, Archivio fotografico Storico, Censimento Raccolte Fotografiche Italia, Beni Culturali

La storia della apparizione della Madonna del Carpineto in una raffigurazione della Manifattura delle Ceramiche di Rapino; e la facciata della chiesa – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino – Le indicazioni delle vie di Rapino sono in ceramica dipinta a mano – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Un’antica bottega ceramista di Rapino nel dettaglio delle ceramiche dipinte da Gioacchino Cascella nella sala consiliare del Comune di Rapino – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

L’ex Convento seicentesco benedettino dedicato a Sant’Antonio, oggi sede del Museo della Ceramica di Rapino – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino, rione dei ceramisti: casa del maestro ceramista Fedele Cappelletti e bottega delle Ceramiche Bozzelli – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino, Museo della Ceramica – Foto Abruzzo storie e passioni

Rapino, Chiesa di Santa Rita con le maioliche dipinte da Gioacchino Cascella  – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Bottega Ceramica Giuliana Santovito e Terenzio Michelli, Rapino – Foto Abruzzo storie e passioni

Ceramiche “Raku”, creazioni del ceramista  Terenzio Michelli – Rapino – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino, chiesa di San Giovanni – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

La centrale via Roma, in lontananza il palazzo del municipio con la torre dell’orologio

Rapino, Torre medievale del Monarca – Foto Leo De Rocco

Rapino, portale ex Convento benedettino oggi sede del Museo della Ceramica – Foto Leo De Rocco

Ornamento, con ori dell’antica oreficeria abruzzese, utilizzato dalle bambine nella “Processione delle Verginelle“, sala espositiva presso Museo della Ceramica di Rapino – Foto Leo De Rocco  per Abruzzo storie e passioni

Rapino, Ceramiche Cascella, Sala consiliare, Comune di Rapino – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino – Chiesa di Santa Rita, pannelli in ceramica di Gioacchino Cascella – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino, Parco della Rimembranza – Foto Leo De Rocco

Passeggiando per i vicoli di Rapino

Rapino, Chiesa di San Lorenzo e pregevole pala d’altare – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Rapino, la navata centrale della chiesa della Madonna del Carpineto, la statua di San Michele Arcangelo e quella della Madonna con Bambino – Foto Leo De Rocco ‐ Secondo i racconti popolari in passato, in occasione della citata “Processione delle Verginelle”, questa statua inspiegabilmente diventò così pesante da non poter essere trasportata, da quel giorno fu utilizzata un’altra statua in gesso, più leggera.

Antico quartiere dei ceramisti di Rapino, Ceramiche Vitocolonna e una vetrina del Museo delle Ceramiche – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

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Fonti: “Luoghi degli Dei, Sacro e Natura nell’Abruzzo Italico” a cura della Soprintendenza Archeologica Abruzzo, Provincia di Chieti, 1997; Pannelli informativi, percorsi museali Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo Chieti e Museo Archeologico Civitella Chieti – Note: (1) Traduzione della Tabula Rapinensis a cura dell’archeologo Adriano La Regina; (2) e (3) Interpretazione della Tabula Rapinensis di Adriano La Regina – Autore/Blogger Leo De Rocco – derocco.leo@gmail.com

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