Nella Pescara di oggi, rutilante di aggressività moderna, via Manthonè è una bacheca, uno scrigno scheggiato, uno stipo che custodisce l’aroma quasi affatto smarrito di una città che certo conobbe pigre e borghesi dolcezze. Giorgio Manganelli, 1987 (1)

Pescara – Museo casa natale Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
12 marzo, oggi nasceva uno dei personaggi abruzzesi più famosi e conosciuti in Italia e nel mondo: Gabriele d’Annunzio (Pescara, 1863 – Gardone Riviera, 1938). Venne registrato all’anagrafe così, con la “d” minuscola, ripresa da quel suo ricco prozio Antonio che si prese cura di suo padre adottandolo. Il cognome del nonno paterno era invece Rapagnetta.
La ricorrenza capita proprio a ridosso del giorno di apertura di questo blog, dedicato alle storie e alle passioni dell’Abruzzo di ieri e di oggi, mi sembra dunque doveroso ricordarla omaggiando il Vate con il primo articolo. Perché d’Annunzio è un simbolo dell’Abruzzo, iconico quanto il Guerriero di Capestrano.
“Sono castellammarese da sempre, non meno che pescarese” Gabriele d’Annunzio
Pescara Vecchia, tra Via delle Caserme e Corso Manthonè, primi del ‘900
Ma più che ripercorrere tutta la sua arcinota biografia* propongo, tra curiosità, aneddoti e qualche peccato di gola, una passeggiata dannunziana nel quartiere di Pescara “vecchia”, la zona della via Manthonè, da qualche decennio eletta a uno dei luoghi della “movida” pescarese, dove il poeta e scrittore nacque, tra alcune architetture Nouveau e in stile neoclassico affacciate su un viale che porta il suo nome, un prestigioso Museo dell’Ottocento così ricco e così Ottocento che sembra un piccolo Musée d’Orsay e una Cattedrale, progettata da Cesare Bazzani per la “Pescara moderna”, ma intrisa di icone dannunziane.
Oltretutto questa zona della città viene citata da d’Annunzio in alcuni episodi narrati nelle sue “Novelle della Pescara” (1902).
* (su D’Annunzio vedi anche: “San Vito Chietino. Trabocchi, ginestre e amanti”; “Miglianico, d’Annunzio, Michetti e San Pantaleone”; “Abbazia di San Clemente a Casauria” – in questo Blog)
Il Preveteriello in preghiera, Antonio Mancini, 1873 – Pescara – Museo dell’Ottocento – Foto Leo De Rocco
La ruisseau entre le rochers – Gustave Coubert – Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Pescara (zona via Manthonè) il ponte ferroviario ricorda il “Ponte di ferro” (attuale Ponte Risorgimento) simbolo di antiche diatribe tra pescaresi e castellammaresi – Foto Leo De Rocco
Pescara, il vecchio Ponte di ferro, univa Pescara (all’epoca provincia di Chieti) a Castellammare Adriatico, l’attuale Pescara Nord (all’epoca provincia di Teramo)
Pescara (zona via Manthonè) Museo delle Genti d’Abruzzo – Foto Leo De Rocco
Pescara (zona Manthonè) piazza Garibaldi, qui abitava la contessa di Amalfi, personaggio inventato da d’Annunzio nelle “Novelle della Pescara” – Foto Leo De Rocco
Pescara, zona via Manthonè (viale D’Annunzio) – Una delle due colonne visibili dell’antica chiesa di Santa Maria di Gerusalemme costruita su un tempio romano quando Pescara, prima della dominazione longobarda, si chiamava Aternum – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale Gabriele d’Annunzio – camera del Poeta e del fratello Antonio – Foto Leo De Rocco – altre foto le trovate nella galleria fotografica
Il Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio conserva l’aspetto di una casa dell’alta borghesia ottocentesca. Arredi, suppellettili, libri e documenti fino agli abiti, le divise, le scarpe e accessori, indossati dal Vate, sono tutti originali e realmente appartenuti a d’Annunzio e alla sua famiglia.
Nella terza stanza c’è il mio letto bianco; c’è il vecchio armadio dipinto, con i suoi specchi appannati e maculati; c’è l’inginocchiatoio (“Notturno”, Gabriele d’Annunzio)
Il letto dove nacque il poeta fu trafugato durante la Seconda guerra mondiale, ma successivamente ricostruito fedelmente grazie ad un disegno di Michele Cascella. Le volte dei saloni sono affrescate secondo il gusto neoclassico dell’epoca. Alle pareti i ritratti di famiglia e alcune stampe, tra le quali una raffigura la Madonna dei Sette Dolori, o delle Sette Spade, alla quale i pescaresi sono molto devoti.
La Basilica della Madonna dei Sette Dolori, l’edificio di culto più antico della città di Pescara, fu costruita su un luogo anticamente ricco di boschi di querce e pascoli, dove, si narra, nel XVII sec. avvennero alcune apparizioni mariane e nell’800 si verificò il “miracolo della pioggia”: a seguito di un periodo di siccità i pescaresi, all’epoca castellammaresi, pregarono la Madonna dei Colli e improvvisamente arrivò la pioggia, i raccolti furono salvi.
Anche Ennio Flaiano, come vedremo, ricorda questa Madonna la cui chiesa ad essa intitolata si trova a “Pescara Colli”, laddove tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’ 800 iniziò lo sviluppo di Castellammare Adriatico sancito dalla costruzione della ferrovia nel 1863, lo stesso anno di nascita di Gabriele d’Annunzio.
Basilica della Madonna delle Sette Spade – Pescara Colli – Foto Leo De Rocco
Pescara Colli – Statua della Madonna delle Sette Spade o dei Sette Dolori – Foto Leo De Rocco
Pescara Colli – Basilica della Madonna dei Sette Dolori – Foto Leo De Rocco – Nel racconto popolare si narra che l’immagine raffigurata in questo quadro apparse su una pietra ad alcuni contadini di Pescara Colli. Sul luogo dell’apparizione verrà edificata per devozione l’attuale Basilica.
Pescatori sulla spiaggia di Castellammare Adriatico, Alfredo Muzii, 1875, collezione privata
La via Manthonè è la stessa via dove nacque un altro abruzzese famoso: Ennio Flaiano, (Pescara, 1910 – Roma, 1972), un’altra generazione e un altro mondo, ma non è impossibile azzardare qualche parallelismo tra i due.
Pescara si popolava di marinai… L’odore acuto delle zuppe di pesce si propagava nell’aria delle cantine aperte… Quando dal forno di Flaiano si spandeva nell’aria l’odore caldo del pane recente…
Così scriveva d’Annunzio nelle “Novelle della Pescara”. Il forno dei Flaiano, che diffondeva l’indimenticabile odore del pane fresco per la via Manthonè, in una Pescara che era ancora separata e spesso in competizione con Castellammare Adriatico, si trovava al piano terra nell’edificio dove otto anni dopo la pubblicazione delle “Novelle” dannunziane, nel 1910, nascerà Ennio Flaiano.
Pescara, Corso Manthonè, ingresso Casa Museo D’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Ennio Flaiano, giornalista, scrittore, e sceneggiatore di film che hanno segnato la storia del cinema italiano e internazionale, grazie anche all’amicizia e al sodalizio artistico con Federico Fellini.
Un’amicizia, è giusto ricordarlo, non senza contrasti. A parte l’episodio del viaggio in aereo a Los Angeles con Fellini e il produttore Angelo Rizzoli in prima classe e Flaiano in seconda, ma in sostanza tra i due c’era una diversa concezione su come rappresentare la realtà nella finzione cinematografica: Fellini era un visionario, Flaiano era più realista.
Film come “La Dolce Vita” hanno fatto scuola, ma anche altrettante straordinarie sceneggiature e collaborazioni che Flaiano intraprese con il gotha del cinema italiano: Antonioni, De Sica, Zampa, Risi, Petri, Monicelli, praticamente tutti. Senza dimenticare il teatro e il giornalismo.
Ennio Flaiano, Federico Fellini e Anita Ekberg
Ennio Flaiano e Federico Fellini
Vincitore della prima edizione del Premio Strega (1947) per “Tempo di uccidere”, romanzo che ispirerà il regista Giuliano Montaldo nel film omonimo, interpretato da Giancarlo Giannini e Nicolas Cage (1989), il pensiero di Flaiano è rappresentato da quel “marziano” piombato a Roma dall’Abruzzo, metafora di un esistenzialismo spesso sofferto, vissuto e descritto con l’arma più efficace: l’intelligente ironia.
Un intellettuale arrivato a Roma dalla provincia, così come il pescarese d’Annunzio, che invece racconterà la capitale nelle sue cronache “bizantine” non prima di aver organizzato la conquista di un’annoiata e appiattita nobiltà e borghesia romana con l’annuncio della sua finta morte a causa di una finta caduta da cavallo: un coup de théatre degno di un film visionario felliniano, sceneggiato da Flaiano.
Casa natale di Ennio Flaiano, Pescara – Foto Leo De Rocco
Flaiano, come d’Annunzio, non dimenticherà le sue origini abruzzesi, così scriveva nel 1972 al suo amico poeta e giornalista Pasquale Scarpitti (Castel di Sangro, 1923 – Pescara, 1973):
“Caro Scarpitti,
Questo dovrebbe spiegarti il mio ritardo nel risponderti;e questo ti dice che non sono nato a Pescara per caso; c’è nato anche mio padre e mia madre veniva da Cappelle sul Tavo. I nonni paterni e materni anch’essi del teramano, mia madre era fiera del paese di sua madre, Montepagano, che io ho visto una sola volta di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori di oggi.
Io ricordo una Pescara diversa, con cinquemila abitanti, al mare ci si andava con un tram a cavalli e le sere si passeggiava, incredibile!, per quella strada dove sono nato, il corso Manthonè, ora diventato un vicolo e allora persino elegante. Una Pescara piena di persone di famiglia, ci si conosceva tutti; una vera miniera di caratteri e di novelle che, se non ci fossero già quelle “della Pescara”, si potrebbe scavare. Ma l’ipotesi dannunziana è troppo forte, bisogna aspettare un altro poeta, e forse è già nato.
Ciò che mi ha sempre colpito nella Pescara di allora era il buonumore delle persone, la loro gaiezza, il loro spirito. Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora “un cristiane”), – la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come i miei, anzi nei loto difetti i miei.
Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo, come regione remota: «Gli è più lontano che Abruzzi»); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare.
Tra i dati negativi della stessa eredità: il sentimento che tutto è vanità, ed è quindi inutile portare a termine le cose, inutile far valere i propri diritti; e tutto ciò misto ad una disapprovazione muta, antica, ad una sensualità disarmante, a un senso profondo della giustizia e della grazia, a un’accettazione della vita come preludio alla sola cosa certa, la morte: e da qui il disordine quotidiano, l’indecisione, la disattenzione a quello che succede attorno.
Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?), con una sola morale: il Lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno.
Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue. Me ne andai all’età di cinque anni, vi torni a sedici, a diciotto ero già trasferito a Roma , emigrante intellettuale, senza nemmeno la speranza di ritornarci.
Ma le mie “estati” sono abruzzesi, e quindi conosco bene l’Abruzzo, il colore e il senso dell’estate, quando dai treni che mi riportavano a casa da lontani paesi, passavo il Tronto e rivedevo le prime case coloniche coi mazzi di granturco sui tetti, le spiagge libere ancora, i paesi affacciati su quei loro balconi naturali di colline, le più belle che io conosca.
Poco so dell’Abruzzo interno e montano, appena le strade che portano a Roma. Dico sempre a me stesso che devo tornarci a “vederlo”. Non certo per scriverne, scrittori abruzzesi che posso dirci qualcosa dell’Abruzzo d’oggi non mancano, io indugerei un po’ troppo nella memoria, non so più giudicare, capisci quello che voglio dire? O forse, chissà… Questa lettera che mi hai cavato con la tua dolce pazienza non volevo scriverla, per un altro difetto abruzzese, il più grave, quello del pudore dei propri sentimenti. Non farmi aggiungere altro, statti bene e tanti saluti dal tuo,” (2)
Ennio Flaiano
Il monumento dedicato a Flaiano in piazza Unione, vicino Corso Manthonè – Foto Leo De Rocco
Lo stesso Flaiano nei suoi scritti ricorda a sua volta la casa di d’Annunzio, quando da bambino si trovava a passare nei pressi accompagnato da sua madre:
Al primo piano, sul balcone estremo di destra, guardando la facciata, ho visto talvolta seduta, nei tardi pomeriggi, la madre del poeta. Una vecchia dal volto nobile, bianca e infelice, dicevano, per la lontananza del figlio.
Casa Museo Gabriele D’Annunzio Pescara – Foto Leo De Rocco
La testimonianza di Flaiano con un suo ricordo così lontano potrebbe evocare l’idea di un cambio generazionale con d’Annunzio, che nei fatti anagraficamente avvenne proprio su questa storica via di Pescara.
Ma non si deve cadere nell’errore di pensare ad una netta contrapposizione tra due mondi, perché se è vero che Flaiano rappresenterà nella cultura italiana un’anima moderna, d’Annunzio non è affatto assimilabile (come qualcuno fa) ad un polveroso periodo stile vittoriano, anzi.
Solo un fatto anagrafico separa la vita simile a un’opera d’arte dell’esteta d’Annunzio da una nuova concezione sociale sorta nel dopoguerra, dove nulla sarà come prima, di una vita edonistica e mondana che, uscita dal chiuso dei nobili e alto borghesi salotti frequentati dagli Andrea Sperelli e dai Giorgio Aurispa, approda, un po’ meno nobile e borghese, nella Dolce Vita di via Veneto, alla luce del sole, e soprattutto dei flash: quel divismo, che stava diventando “pop”, lo inventò prima d’Annunzio.
D’Annunzio è stato un intellettuale rivoluzionario, contribuì a rinnovare con un linguaggio originale, passionale, psicologico, poeticamente decadente e non privo di neologismi, la letteratura e la lingua italiana, contribuendo alla modernizzazione culturale, con la creazione di inedite forme di comunicazione che spesso erano volutamente provocatorie e dissacranti. Penso ad esempio allo scandalo che scoppiò a Parigi quando mise in scena “Le Martyre de Saint Sébastien” nel 1911, realizzando uno spettacolo “queer” ante litteram (vedi “I San Sebastiano abruzzesi” in questo blog). Oltre ad inventare, com’è noto, nuove parole che arricchirono la lingua italiana e che per l’epoca, ancora formale ed accademica soprattutto per poeti e scrittori, erano modernissime; come, tra le altre, “tramezzino” e “scudetto”.
Il poeta e scrittore pescarese fu anche protagonista dell’allora nascente pubblicità commerciale, prestò la sua immagine come testimonial di alcune marche di liquori e lui stesso promosse una linea di profumi.
Pescara – Casa Museo D’Annunzio – camicia da notte disegnata da Gabriele D’Annunzio – Foto Leo De Rocco
D’Annunzio e l’haute couture. Esperto di moda femminile già da adolescente, spesso disegnava egli stesso gli abiti per le sue muse; sceglieva abiti femminili di alta sartoria, ma anche scarpe, gioielli, persino camicie da notte, arrivando a fingersi donna, quando scriveva sul giornale romano “La Tribuna”, per dare consigli alle lettrici, firmandosi “Lili Buscuit” (2). Tutto questo avveniva decenni prima che l’Italia diventasse una potenza mondiale della moda.
Gabriele d’Annunzio nel 1877 circa, ai tempi del Liceo Cicognini
La lontananza di d’Annunzio dalla casa di via Manthonè numero 101, causa della “‘infelicità” della madre del poeta testimoniata da Flaiano, inizia già poco prima dell’adolescenza: all’età di 11-12 anni Gabrielino lo troviamo studente, già spavaldo e sicuro di sé, al Convitto Cicognini di Prato, il più prestigioso collegio italiano dell’epoca.
Ho preso il fanciullo di Pescara, me lo sono messo su le spalle… Lo cercavo, sempre lo cercavo, per le vie di Prato, per le vie di Pistoia, per le vie di Firenze, per tante vie di Toscana, ed era con me! È con me. (Gabriele d’Annunzio).
Pescara – Teatro Michetti, vicino Corso Manthonè – Foto Leo De Rocco
Ma anche dopo il collegio, nonostante i ritorni in Abruzzo, la licenza ginnasiale la prenderà a Chieti nel 1878, e le visite alla madre qui nella casa natale, d’Annunzio abiterà in diversi luoghi abruzzesi e non: in una stanza in affitto a Roma, per qualche anno nella vicina Francavilla al Mare, per alcuni mesi (di passione) in una villetta sul mare a San Vito Chietino, e poi Napoli, Settignano, Venezia, Arcachon, Parigi…fino ad approdare a Gardone Riviera.
Gabriele d’Annunzio nella sua casa a Francavilla al Mare – copyright Archivio storico Iacone, per Abruzzo storie e passioni
Eremo Dannunziano, San Vito Chietino, la casa degli amanti Gabriele d’Annunzio e Barbara Leoni – Foto Leo De Rocco – (vedi “San Vito Chietino: ginestre, amanti e trabocchi” in questo blog)
Gardone Riviera, Vittoriale – Foto Leo De Rocco
Pescara – Cattedrale di San Cetteo – Foto Leo De Rocco
Cattedrale di San Cetteo Pescara – Busto in argento del Santo – Foto Leo De Rocco
Pescara, Viale Gabriele D’Annunzio – Stemma di Pescara, quando era ancora separata da Castellammare Adriatico. Dal 1807 al 1927 i due paesi, separati dal fiume Pescara, facevano parte di due province: Castellammare Adriatico era provincia di Teramo, Pescara rientrava nella provincia di Chieti – Foto Leo De Rocco
Se visitate la casa natale di Gabriele d’Annunzio vi consiglio, per una completa passeggiata dannunziana, di abbinare al museo anche la visita alla vicina Cattedrale di San Cetteo, (si trova su viale d’Annunzio) la cui costruzione, iniziata nel 1933 e terminata cinque anni dopo, fu fortemente voluta dallo stesso d’Annunzio.
Al suo interno troverete la cappella dedicata alla madre dello scrittore pescarese donna Luisa De Benedictis, sepolta nella cattedrale cittadina per volere del figlio, un privilegio che di solito spetta a sante e regine, e questo lo trovo molto dannunziano. Nel sepolcro c’è una scultura di Arrigo Minerbi e un dipinto di San Francesco attribuito al Guercino, un tempo appartenuto a d’Annunzio.
Ahi, ahi era l’agosto strepitoso del 1872 o 73. E anche in quegli anni la Chiesa di San Cetteo era decrepita, con le mura scrostrate, il pavimento sconnesso, con i vetri rotti. Entravano la pioggia e la grandine e la raffica; ma talvolta entrava anche una rondine, e guizzava e garriva sul ciborio come intorno al suo fresco nido.
Dono alla nuova Chiesa una grande pala d’altare, attribuita al Guercino, immagine di San Francesco”. Gabriele d’Annunzio

Pescara – Cattedrale di San Cetteo – San Francesco e il Crocifisso, Guercino – Foto Leo De Rocco
Sempre su viale d’Annunzio, tra alcuni edifici dalle linee Nouveau, è stato da poco inaugurato l’interessante Museo dell’Ottocento, una delle più importanti collezioni italiane con centinaia di opere distribuite nei tre piani di un elegante edificio neoclassico tra verismo e pre-impressionismo, e con le prestigiose Scuole di Posillipo e Barbizon.

Una delle Sale del Museo dell’Ottocento, Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Francesco Paolo Michetti, autoritratto, Museo dell’Ottocento Pescara – Foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco

Museo dell’Ottocento Pescara – foto Leo De Rocco
Museo dell’Ottocento Pescara – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo Nazionale del Cinema, Mediamuseum, vicino Corso Manthonè – Foto Leo De Rocco
Lo spirito di Flaiano è dietro l’angolo, nella vicina piazza Emilio Alessandrino, sempre a pochi passi dalla via Manthonè, c’è il Museo Nazionale del Cinema, il Mediamuseum, fondato dal critico letterario Edoardo Tiboni (ideatore anche del prestigioso Premio Flaiano), ma anche qui, tra locandine di celebri film, foto di attori, attrici e macchine da presa, troverete le orme lasciate da d’Annunzio.
Pescara – scalinate retrò su Corso Manthonè – Foto Leo De Rocco
La Casa Museo Gabriele D’Annunzio di Pescara ospita periodicamente mostre a tema, come questa:
Una mostra temporanea al Museo casa natale Gabriele d’Annunzio Pescara – Leo De Rocco
D’Annunzio si sa amava tutti i piaceri della vita, anche quelli del palato. Tempo fa visitando il Vittoriale a Gardone Riviera notai nella grande cucina del Vate una “chitarra” appesa sulla parete, non lo strumento musicale ma l’attrezzo della tradizione culinaria abruzzese che viene utilizzato per fare gli spaghetti appunto “alla chitarra”.
Sulla “chitarra” di d’Annunzio c’è una bel racconto molto divertente, che propongo in questo articolo di Gian Carlo Fusco. Nato a La Spezia nel 1915, figlio di un ufficiale della Marina Militare italiana di origini beneventane, Fusco è stato un brillante ed estroso giornalista e scrittore, collaborò con prestigiosi giornali e riviste, come l’Espresso, l’Europeo e Il Mondo, quando in redazione c’era pure Ennio Flaiano.
Gian Carlo Fusco è stato anche uno sceneggiatore per cinema e teatro, collaborò, tra gli altri, con Carmelo Bene, Vittorio Gassman, Luigi Comencini. Personaggio dalla biografia avventurosa si spense a Roma nel 1984, povero e dimenticato da tutti.
Lo ricordo con piacere in questo articolo con un brano su Gabriele d’Annunzio, tratto dai suoi racconti un po’ romanzati, o forse erano romanzi veri e propri perché i suoi libri lasciano sempre questo piacevole dubbio.
D’Annunzio e la “chitarra”, di Giancarlo Fusco.
“Non ricordo esattamente l’anno. Ma se non fu nel 1925, fu certamente nel 1926, che la Marina Militare italiana decise di donare a Gabriele D’Annunzio, sistemandogliela fra le amene verzure del Vittoriale, la prora della nave «Puglia». Cimelio ambitissimo dal Poeta Soldato, perché su quella tolda, nel 1920, a Spalato, era stato ucciso il comandante Tommaso Gulli.
L’incarico di quell’operazione, dal taglio estetico della prora, alla collocazione su un apposito basamento, fu dato al colonnello del Genio Navale Umberto Pugliese. Il quale, quando venne il giorno della solenne consegna a D’Annunzio, ottenne dal Ministero di potersi scegliere i quattro o cinque ufficiali che lo avrebbero accompagnato a Gardone.
Fra gli altri, scelse mio padre. Il quale, nella sua qualità di capitano commissario, aveva curato la pratica «Stanziamento fondi relativo omaggio prora nave Puglia a G. D’Annunzio».
Mio padre, Carlo Fusco, nato fra i monti del Sannio, era arrivato alla Marina da Guerra percorrendo, come tanti giovani meridionali di buona volontà, la strada, spesso miracolosa, indicata da un cartello segnaletico che dice: «Arrivare, il più presto possibile, al primo stipendio». E come tantissimi italiani che frequentano scuole a indirizzo tecnico, disprezzava profondamente le questioni tecniche e si occupava, appassionatamente, di letteratura. Va da sé che il sommo dei suoi sommi fosse Gabriele D’Annunzio.
Quando mio padre fu informato ufficialmente che il colonnello Pugliese lo aveva incluso nel gruppetto dei suoi accompagnatori, l’idea che stava per conoscere, in persona, l’Imaginifico, alias Ariel Armato od Orbo Veggente, lo mise in uno stato quasi febbrile. Che diventò ancora più acuto e vibrante, allorché gli venne l’idea di portarmi con sé al Vittoriale. Perché (disse) sarebbe stato un vero delitto non approfittare dell’occasione per farmi «vedere, da vicino» l’’ultimo Grande Italiano.
Si era in giugno. Avevo appena compiuto non so se 10 o 11 anni. Mancava una settimana alla partenza. Mi fu acquistato un vestito alla marinara bianco, completo di berretto con la scritta «Regia Nave Dante Alighieri». Dovetti imparare a memoria il sonetto «O giovinezza!» («O giovinezza, ahi me, la tua corona/ su la mia fronte è già quasi sfiorita…») nell’eventualità che l’Imaginifico mi chiedesse di recitargli qualcosa di suo.
Partimmo agli sgoccioli di quel giugno, con un treno del tardo pomeriggio, che dalla Spezia ci portò a Genova. Da dove, cambiando treno, alle prime luci del giorno, arrivammo a Milano. La Prora, intanto, si rimise in viaggio per Brescia, dove, appena scesa dal treno, fu distribuita su due grandi automobili scure e circa un’ora dopo scaricata nell’Eremo di Gabriele, proprio di fronte alla villa denominata «La Priorìa»l’abitazione vera e propria del Filibustiere del Quarnaro, il quale ci stava aspettando davanti alla porta della villa, con un gigante barbuto alle spalle.
Me l’ero immaginato non molto alto, ma snello. Invece, era più tozzo che basso. Indossava un abito di gabardine di un marrone molto chiaro. Sulla camicia avorio serpeggiava una cravatta verde ramarro. Calzava scarpe bianche dalla mascherina cannella traforata. La testa, perfettamente calva, era un po’ incassata fra le spalle. Aveva l’occhio destro coperto da una benda nera.
«Alalà! Siate i benvenuti, uomini del mare!» salutò, con voce sottile e una punta di cantilena. Poi, porgendo una ciotola di legno, soggiunse: «Date il vostro obolo al poverello!».
Consegnò al gigante barbuto la ciotola dov’erano cadute alcune monete, quindi strinse tutte le mani, s’informò, facendomi una carezza, chi fosse il «giovanissimo nostromo biondo e bianco». Poi c’invitò a contemplare la «fatidica prora», che solo qualche ora prima alcuni arsenalotti, venuti da Venezia, avevano finito di sistemare sul basamento, in mezzo ai cipressi.
Di lì, cominciò la visita al Vittoriale. Con brevi tappe al Cortile degli Schiavoni, all’Arengo, al Frutteto, al Laghetto delle Danze, alla Valletta dell’Acqua Pazza e a quella dell’Acqua Savia. Alla fine del giro, ch’era durato circa due ore e durante il quale, di tanto in tanto, il Vate mi aveva accarezzato una guancia, ci ritrovammo davanti alla «Priorìa».
«Ora i miei fidi uscocchi vi accompagneranno alla locanda» disse D’Annunzio. «Ma stasera vi aspetto alla mia mensa, per un modesto rancio. Alalà!».
«Alalà!» echeggiò la «rappresentanza».
Poi, mio padre, un po’ timidamente, s’informò:
«Posso portare mio figlio anche stasera?».
«Non puoi! Devi!» rispose l’Imaginifico. «Come potrebbe mancare all’appello la presenza augurale del giovanissimo nostromo biondo e bianco?».
Non era una tavola da pranzo, quella dove sedemmo qualche ora dopo. Era una specie di altare, sul quale piatti e posate occupavano il minimo dello spazio indispensabile, in mezzo a una selva di cimeli e oggetti dal misterioso significato. Schegge d’elica, statuette di bronzo e d’argento, calici ecclesiastici, brandelli di damasco, di raso e di broccato, pugnali di tutte le fogge, caschi da aviatore, una decina fra oriflamma, gagliardetti e drappelle, fiale di cristallo colorato, un nastro da mitragliatrice con tutti i proiettili… Guardavo quel briccabracche a bocca aperta.
Che stessi sognando? No. Perché sentii la mano di D’Annunzio, che mi aveva voluto accanto, sfiorarmi i capelli, mentre la sua voce cantilenante mi chiedeva: «Ti piacciono, piccolo nostromo, tutte queste cose che ricordano le mie gesta guerresche?».
Riuscii ad esalare un flebile «sì!».
«Bene!» fece lui. Poi, agitò un grosso campanello d’argento, dicendo: «Ora le mie fedeli clarisse cominceranno a servirci!».
Infatti, pochi istanti dopo entrarono le clarisse. Due donne dai capelli corvini, lunghi sulle spalle, che recavano ognuna un vassoio di metallo dorato (che fosse proprio oro?) colmo di pastasciutta fumante.
Nonostante l’appellativo di «clarisse», riferito alle monache di Santa Chiara, le due donne indossavano corte tunichette trasparentissime, sotto le quali erano completamente nude. Così che lasciavano intravedere, nettissimo, folto e tenebroso, il «bosco d’amore» che faceva chiazza sotto l’addome. Era la prima volta che i miei occhi si posavano sull’«angolo ferino di Venere». Talmente ferino, nelle due ancelle del Vate, che andavano servendo la pastasciutta sorridenti e disinvolte, da procurarmi non solo stupore, ma addirittura spavento.
Cos’erano quelle macchie? Una malattia? Due micini neri accovacciati al calduccio? Un segno di lutto insolito? Quando Suora Pecchia (seppi in seguito che si chiamava così) arrivò ad empirmi il piatto, i miei occhi le restarono inchiodati sulla selva del pube. Mentre tutti gli occhi dei commensali erano fissi su di me. E quelli di mio padre, che oltre ad essere un fervente dannunziano era anche un moralista, avevano un’espressione perplessa e severa, sotto le sopracciglia aggrondate.
L’Imaginifico avvertì l’imbarazzo che il mio impatto infantile con la pelliccia segreta della donna aveva creato attorno alla tavola. E cercò di deviare in qualche modo la mia attenzione.
«Hai guardato bene, nostromo giovinetto, i maccheroni che la mia ancella divota t’ha messo nel piatto?».
«Sì!» mentii, inghiottendo saliva.
«Hai notato la loro foggia singolare, curiosa?».
Guardai il piatto per la prima volta e notai che gli spaghetti non erano di forma cilindrica, come quelli di casa.
«Mi sembrano… quadrati» balbettai.
«Quasi!» fece il Vate, accarezzandomi i capelli sagomati all’Umberto. «Questa è la pasta caratteristica dell’Abruzzo, ch’è la mia terra! È nomata pasta alla chitarra. E sai perché, piccolo marinaio biondo e bianco?».
«No!» bisbigliai.
«Perché un tempo la sfoglia veniva tagliata proprio con le corde di una chitarra. Al posto della quale venne poi usato un istrumento, munito di alcuni fili metallici ben tesi. Si dice che l’arnese sia stato ideato da un ciabattino di Palena, sulle pendici della Maiella, chiamato Manicone. Questa è la storia di questa pasta abruzzese. La rammenterai, angeluzzo marino?».
«Sì!».
La ricordo, infatti, ogni volta che mi capita di mangiare spaghetti alla chitarra. E insieme ad essa ricordo anche le due macchie nere che mi apparvero, misteriose, attraverso un velo di un lievissimo color rosa.”
Gian Carlo Fusco nel suo posto di lavoro
Pescara, atmosfere Nouveau nella zona di Corso Manthonè – Foto Leo De Rocco
Se desiderate deliziare la passeggiata dannunziana pescarese con una pausa, che sicuramente anche d’Annunzio avrebbe apprezzato, sempre in zona, davanti a piazza Garibaldi, dove abitava la contessa di Amalfi, uno dei personaggi inventati da d’Annunzio (ma ispirati da persone realmente incontrate) trovate lo storico “Caffè Camplone Caprice”.
Qui tanti anni fa il pasticcere pescarese Tullio Camplone creò “La Presentosa”, un dolce simile nella forma al Parrozzo, nome dato da d’Annunzio, con tanto di dedica rimata, ma con un gusto differente e ispirato all’omonimo gioiello, simbolo della oreficeria abruzzese, il cui nome fu dato, non a caso, sempre da d’annunzio.
Come sua è l’invenzione della parola Aurum, che invece è un liquore, ma al Caprice Camplone lo servono anche come gelato, insieme ad altri gusti rigorosamente abruzzesi come lo Zafferano di Navelli, i Confetti di Sulmona, la Liquirizia di Atri, il liquore Corfinio di Chieti… Buona passeggiata.
Leo De Rocco
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È vietato l’uso, anche solo parziale, delle foto e del testo presenti in questo articolo senza autorizzazione scritta – Note : 1) dal libro di Pino Coscetta “Viaggio in Abruzzo con Giorgio Manganelli” Solfanelli Editore, 2012; 2) Tratto dal libro di Pasquale Scarpitti “Disincanto” edizione Sarus 1972; 3) dal libro “D’Annunzio e la magia della moda”, di Paola Sorge, edizioni Elliot 2015 – Fonti: Casa Museo Gabriele D’Annunzio Pescara – Articolo aggiornato a luglio 2022 – Autore/Blogger: Leo De Rocco derocco.leo@gmail.com
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco – Qui d’Annunzio accudiva il suo cavallo chiamato Aquilino
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Penso, non so perché, al suono dell’antica mia voce quando, fanciullo, sollevato il coperchio ferrato del pozzo e, sporgendomi dalla sponda di pietra solcata dalla corda, gittavo un grido verso il fondo ove intravedevo il mio viso nell’acqua che luceva… Richiudevo il coperchio con cautela, perché l’urto del ferramento non ricoprisse il mio grido segreto
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Nella terza stanza c’è il mio letto bianco, c’è il vecchio armadio dipinto, con i suoi specchi appannati e maculati, c’è l’inginocchiatoio di noce dove mi sedevo in corruccio e rimanevo ammutolito, con una ostinazione selvaggia, per non confessare che mi sentivo male.
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
La seconda stanza è deserta. Ci sono i libri della mia infanzia e della mia adolescenza. C’è il leggio musicale del mio fratello emigrato. C’è il ritratto di mio padre fanciullo col cardellino posato sull’indice teso.
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
È la stanza dove io nacqui, dov’ella spirò. Io rimuoio ed ella rinasce; ed entrambi viviamo.
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco
Pescara – Museo casa natale di Gabriele d’Annunzio – Foto Leo De Rocco

Pescara – Teatro Michetti – Foto Leo De Rocco
Copyright –All rights reserved – È vietato l’uso, anche solo parziale, delle foto e del testo presenti in questo articolo senza autorizzazione scritta. derocco.leo@gmail.com – Note : 1) dal libro di Pino Coscetta “Viaggio in Abruzzo con Giorgio Manganelli” Solfanelli Editore, 2012; 2) dal libro “D’Annunzio e la magia della moda”, di Paola Sorge, edizioni Elliot 2015 – Fonti: Casa Museo Gabriele D’Annunzio Pescara – Articolo aggiornato a luglio 2022 – Autore/Blogger: Leo De Rocco derocco.leo@gmail.com