In copertina: Spiaggia di Francavilla al Mare, inizi del ‘900. “Costumi da bagno ultima moda: a righe orizzontali o verticali per i ragazzi. Le ragazze, invece, incominciano a scoprire avambracci e polpacci.” (1) archivio storico Iacone/copyright
In questo articolo vi parlerò della canzone popolare abruzzese, un argomento ormai dimenticato, eppure è un tema identitario che fa parte della nostra cultura e della storia della regione.
Durante il faticoso lavoro nei campi i contadini cantavano le canzoni popolari per rafforzare lo spirito e addolcire lo sforzo fisico. Anche gli emigranti, che tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 si imbarcavano per cercare fortuna soprattutto nelle Americhe, cantavano con nostalgia queste canzoni durante il lungo viaggio. E le donne, che un tempo si recavano alle fontane pubbliche o sulla riva dei fiumi per lavare la biancheria di casa, in quanto nelle loro povere case non esisteva acqua corrente ma solo un pozzo ad uso comune, usavano cantare melodie spensierate o malinconiche.
Edward Lear, scrittore e illustratore inglese vissuto nell’800, durante un suo viaggio in Italia rimase affascinato da un gruppo di ragazze di Celano le quali – riportò Lear nelle sue memorie – ogni sera al tramonto, mentre tornavano a casa stanche dopo il lavoro nei campi, usavano cantare “dolci canzoni ” sotto il peso di conche di rame colme d’acqua, che le giovani donne trasportavano con disinvoltura sul capo.
Lavatoio pubblico Porta Ripa a Francavilla al Mare, luogo di incontro e di sosta per le donne del popolo – Archivio storico Iacone/copyright
Lavandaie sul fiume Liri, dettaglio, 1884, Viggo Pedersen – Imago Museum Pescara – Foto Leo De Rocco – Viggo Pedersen è uno dei tanti pittori impressionisti scandinavi che tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 viaggiarono in Abruzzo scoprendo nei paesaggi e nelle tradizioni popolari della regione l’ideale ispirazione.
Giovani donne alla fontana di Civita d’Antino, 1894, Johannes Martin Fasting Wilhejelm – Imago Museum Pescara – Foto Leo De Rocco
Lo scultore Costantino Barbella (Chieti, 1852 – Roma, 1925) traendo ispirazione da queste scene popolari modellò nel bronzo e nella creta immagini di contadini e donne del popolo mentre cantavano durante le loro attività quotidiane.
Con le donne adornate di gioielli della tradizione orafa abruzzese, come le collane “Presentosa” e “Cannatora” e gli orecchini “Sciacquajje”, gioielli sempre indossati dalle donne abruzzesi, anche durante i faticosi lavori quotidiani. (per un approfondimento vedi in questo blog “Abruzzo e antichi gioielli, il corallo di Giulianova”).
Costantino Barbella, “Coro d’amore”, dettaglio – Collezione F.P d’Aloisio – foto Leo De Rocco
Amy Atkinson, Rocca Pia (L’Aquila), acquerello 1907 – University of California Libraries – “Qui le persone sono accoglienti, allegre e di mentalità aperta” annotò nel suo diario Anne Macdonell
Agli inizi del secolo scorso una viaggiatrice inglese, Anne Macdonell, annotò nel suo diario di viaggio in Abruzzo, poi trasformato nel libro “In the Abruzzi” – edito a Londra nel 1908 e corredato con le illustrazioni dei paesi visitati della disegnatrice Amy Atkinson, sua compagna di viaggio – lo stupore che provò nel constatare quanto era diffuso il canto tra gli abruzzesi. Ecco cosa scriveva:
“Le donne di Scanno che lavorano al telaio, i contadini sotto il sole accecante, i pastori sulla Piana delle Cinquemiglia, fino alle colline piene di vigneti e tra gli innamorati: cantano ora l’uno ora l’altro, da campo a campo, e a vicenda rispondono cantando senza fatica e senza sosta mentre lavorano curvi.
Poi proseguiva:
“La cantante più dolce che io abbia mai ascoltato è stata una fanciulla di quindici anni il cui lavoro consisteva nel recare sulla testa dei mattoni da portare ai muratori che stavano costruendo una villa sul litorale adriatico. Il suo compagno era un ragazzo più piccolo di lei di una paio d’anni: i due andavano avanti e indietro cantando una dolce melodia sotto quel peso.”
Ragazze di Francavilla al Mare, inizi ‘900 – Archivio storico Iacone
La scrittrice Macdonell cita le donne di Scanno, ma in questo affascinante paese, tanto caro a celebri fotografi come Henri Cartier-Bresson, anche i pastori, quando tornavano a casa dopo le lunghe assenze dovute alla Transumanza, dedicavano alle loro amate questa canzone, ormai completamente persa nel tempo.
Un testo semplice che a qualcuno oggi può sembrare banale, ma è una testimonianza di un Abruzzo rurale, arcaico, che a pieno titolo fa parte della storia e della cultura regionale:
Eccomi bella mia, sono tornato, le tue bellezze mi hanno richiamato, ora che a te vicino sono tornato a te fedele sarò all’infinito.
Quando nascesti tu fior di bellezza, il sole ti donò il suo splendore; la luna ti donò la sua chiarezza; cupido ti insegnò a far l’amore. Quanto sei cara fior di Diana! Tieni la bellezza della luna; porti i capelli alla fuggiana; il cuor mio per te si consuma.
Bella, che delle belle regina sei, l’unico oggetto dei pensieri miei. Fior di ruta, il mio cuor innamorato ti saluta.
Costantino Barbella, “Serenata”, 1883, Collezione F.P. d’Aloisio presso Casa Museo D’Annunzio Pescara – foto Leo De Rocco
Dalla montagna al mare, Mare Nostre è il titolo di una canzone dialettale abruzzese di ispirazione popolare. Scritta dal poeta e saggista Luigi Illuminati (Atri, 1881-1962), e musicata da Antonio Di Jorio (Atessa, 1890 – Rimini, 1981), questa canzone popolare esprime la nostalgia, la lontananza, la malinconia.
A mio avviso sono temi musicali ricorrenti, in generale, nella canzone popolare mediterranea, in particolare in quella portoghese, con le tipiche melodie della “saudade” e del Fado, anch’esse espressione della nostalgia dovuta al distacco, dai loro cari e dalla loro terra, dei marinai e dei pescatori, i quali ogni giorno dovevano partire in mare col rischio di non tornare più perché sorpresi da una tempesta. La saudade portoghese esprime anche la malinconia per chi, costretto ad emigrare, lasciava la terra di origine e i propri affetti. Temi che troviamo anche in alcune melodie del Flamenco andaluso, espressione di passioni ed emozioni, tipiche della cultura gitana.
Non a caso la più famosa interprete del Fado portoghese, Amalia Rodrigues (Lisbona, 1920 – 1999) ambasciatrice culturale del Portogallo, inserì in un album che incise nel 1973 dal titolo “A una terra che amo” la canzone popolare abruzzese “Sant’Antonie a lu deserte” (Sant’Antonio nel deserto).
Un brano che anticamente veniva cantato in Abruzzo il giorno della vigilia della festa di Sant’Antonio da un piccolo gruppo di musicisti composti da pastori e contadini, i quali si esibivano nei quartieri e nelle case dei paesi dell’aquilano, in particolare nella zona di Scanno.
In seguito l’usanza si diffuse nel resto dell’Abruzzo, ad esempio a Fara Filiorum Petri, nel chietino, in occasione della Festa delle Farchie (2) durante la quale i faresi ricordano la leggenda della mancata invasione del loro paese da parte delle truppe francesi grazie alla intercessione di Sant’Antonio che trasformò un bosco di querce in gigantesche torce di fuoco spaventando gli invasori. La canzone parla della lotta tra Sant’Antonio e il demonio, e la vittoria del Santo.
Amalia Rodrigues, considerata “La regina del Fado”, durante un concerto a Lisbona
“Mare Nostre” esprime anche l’amore degli abruzzesi per il mare: in questo caso un amore intenso, profondo, malinconico, al pari dell’altro legame che gli abruzzesi hanno con il territorio montano.
La Majella è considerata dagli abruzzesi una “Madre”, la “Grande Madre” descritta così già dal famoso poeta e scrittore Ovidio, nativo di Sulmona, e ad essa hanno dedicato diverse canzoni popolari, ma anche poesie, favole e romanzi.
Gabriele D’Annunzio ad esempio ambienterà gran parte della storia tra Ippolita e Giorgio Aurispa, nel suo terzo romanzo della trilogia “della Rosa”, sul mare, tra i trabocchi di San Vito Chietino.
Nel teatro di Atri, città d’arte piena di tesori e storie (avrò modo di parlarvene nei prossimi articoli), è conservato l’archivio musicale di Antonio Di Jorio, l’autore di Mare Nostre, e sempre ad Atri, vicino al Palazzo Ducale, si trova la statua di una Madonna con dediche composte, in greco e latino, da Luigi Illuminati.
Le due foto che seguono ritraggono la citata dedica e il sipario del Teatro di Atri, in cui è rappresentato uno dei più famosi imperatori romani, Adriano, i cui avi erano originari di Hatria Picenum, l’antica Atri.
Atri – edicola votiva della Madonna di Lourdes (1942) con dediche in greco e latino composte da Luigi Illuminati, marzo 2015 – Foto Leo De Rocco
Atri – Teatro Comunale Piceno, marzo 2015 – foto Leo De Rocco
Testo della canzone Mare Nostre, in italiano e in dialetto abruzzese:
Mare nostro, mare che crei a questo cuore una passione d’amore e mi fai incantare. Mare bello, sopra questa bella barca, l’anima per la lontananza si mette a sognare. Rema, rema, marinaio. Rema, rema per questo mare che non dorme e sospira con me.
Mare chiaro, mare di latte e d’argento, mi voglio scordare ogni dolore e tormento. Mare grande, come un cielo stellato, quella luce incantata mi fa tremare il cuore. Rema, rema marinaio.
Mare nostro, mare di gioie e di feste, di luce e chiarore ti vesti. Mare bello, dammi questa tua veste lucente, fammi di luce e di vento e fammi volare…
Tramonto su Punta Aderci, luglio 2015 – foto Leo De Rocco
Mare nostre, mare che crijj’a stu core na passione d’amore e mme fì ‘ncantà; mare bbelle sopr’a sta bbella paranze l’aneme li luntananze se mett’a ssugnà. Voga voghe, marenare; voga voghe pe stu mare che nen dorme e suspire nghe mmé.
Mare chiare, mare de latte e d’argente, ogne ddulore e tturmente me vujje scurdà. Mare granne come nu ciele stellate, tremà ssa luce ‘ncantate lu core mme fà. Voga voghe, marenare; voga voghe pe stu mare che nen dorme e suspire nghe mmé.
Mare nostre, mare de ggioje e de feste, tutta luce ssa veste, tutta chiarità. Mare bbelle, damme ssa vesta lucente, famme de luce e de vente e ffamme vulà…
Altro esempio che vi propongo è la canzone “Mara maje” , (traduzione: Amara me), un canto popolare la cui origine affonda nel medioevo abruzzese e di cui non si conosce l’autore, forse fu scritta a Scanno e da qui, con varie versioni, diffusa in tutta la regione e nell’Italia meridionale.
Il brano descrive il senso di abbandono, il dolore, lo smarrimento di una donna che ha perso il marito, costretta per questo a rimanere sola e a provvedere ai propri figli. La prima testimonianza di questo struggente canto abruzzese si ha nel diciottesimo secolo con la pubblicazione di un libro di poemi dialettali ad opera del musicista abruzzese Romualdo Parente (Scanno 1737–1831).
Pochi sanno che questa canzone fu scelta dalla regista Lina Wertmüller per la colonna sonora del film “D’Amore e d’Anarchia“. Un film del 1973 con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, che valse il premio a Cannes e il Nastro d’Argento a Giannini, come migliore attore protagonista e un riconoscimento a Mariangela Melato dal New York Film Critics Awards.

Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in una scena del film (titolo completo) “D’amore e d’anarchia, ovvero stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…”, 1973.
Giancarlo Giannini in occasione di una conferenza all’Universita D’Annunzio, Chieti – Foto Leo De Rocco
L’esecuzione della canzone fu affidata ad Anna Melato (sorella di Mariangela, che nel film interpreta una prostituta), e l’arrangiamento musicale a Nino Rota. La Melato canta la canzone in una scena del film.
Dal film “D’Amore e d’Anarchia“ di Lina Wertmüller:
« …Io avevo una casetta, ora sono sola e abbandonata, senza ricetto, senza fuoco e senza letto, senza pane e compagnia… Amara me, amara me, amara me, triste me, triste me, triste me, ora mi uccido, ora mi uccido, ora mi uccido sopra te…»
Testo originale in dialetto abruzzese:
«… Je a tiné na casarielle, mo’ so songhe, senza recette, senza foche e senza lette, senza pane e companaje. Mare maje, mare maje, mare maje, scura maje, scura maje, scura maje, mo m’accide, mo m’accide, mo m’accide ‘ngoll’a te…»
Anche “Amara terra mia“, canto popolare di origine abruzzese nato nei primi del ‘900 con il titolo originale “Nebbia nella valle” e diffusa dalle raccoglitrici di olive tra le colline chietine, parla di malinconici addii alla terra di origine e ai propri affetti, di storie di emigranti:
Sole alla valle, sole alla collina, per le campagne non c’è più nessuno… Cieli infiniti e volti come pietra, mani incallite ormai senza speranza… Addio, addio amore, io vado via. Amara terra mia, amara e bella…
Questa canzone popolare abruzzese, la cui origine si perde nel tempo, fu riadattata nel 1964 dalla ricercatrice etnomusicale Giovanna Marini e in seguito (negli anni ’70) da Enrica Bonaccorti e cantata con successo da Domenico Modugno.
Il brano in Abruzzo è conosciuto con il titolo in dialetto “Addije, addije, amore” (Addio, addio amore), titolo originale di una canzone di cui è ignoto l’autore, scoperta da Modugno (e dalla Bonaccorti) grazie alla tradizione orale abruzzese.
Domenico Modugno è considerato il padre dei cantautori italiani
Bartolomeo Pinelli – I Pifferari, 1830 – Archivio per i Beni e le Attività Culturali
La scoperta e il riadattamento di canzoni popolari e brani musicali abruzzesi risale all’800.
Il famoso compositore e direttore d’orchestra francese Hector Berlioz (1803 – 1869), mentre si trovava in viaggio in Italia rimase colpito da alcuni brani musicali eseguiti dai pifferai abruzzesi, chiamati dai romani “Pifferari”, i quali arrivavano dai paesi montani o comunque dell’entroterra abruzzese e si esibivano, insieme agli zampognari, nelle piazze e nelle case suonando dolci melodie accompagnate da canti in dialetto abruzzese e dal “saltarello”.
Questi musicisti del popolo, tra essi c’erano anche ragazzini di 12 – 13 anni, partivano dai loro piccoli paesi dell’Abruzzo montano per recarsi nelle città abruzzesi e a Roma, qui si esibivano davanti alle edicole votive dedicate alla Madonna, ma anche nelle botteghe e nelle case delle famiglie romane, che per tradizione ogni anno li invitavano.
Questa usanza fu interrotta dopo l’Unità d’Italia, in quanto le autorità revocarono i permessi ad esibirsi nella neonata capitale, non senza le proteste dei romani che videro vietare un’antica tradizione che rinnovavano da generazioni.
Molti “pifferari” abruzzesi con il crollo dell’economia pastorale emigreranno, come tanti altri connazionali soprattutto del Sud Italia. Una zampogna appartenuta ad un emigrante abruzzese si trova oggi esposta al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh.
Pifferari abruzzesi a Roma suonano inni dedicati alla Madonna – David Wilkie, 1846 – Royal Academy Londra
A Roma questi musicisti e cantori popolari furono notati dal citato Hector Berlioz il quale, rimanendone piacevolmente colpito, trascrisse le loro note musicali.
Tornato a Parigi Berlioz compose “La serenata di un montanaro degli Abruzzi alla sua amante“, inserita poi nella sinfonia “Harold en Italie” che il compositore francese scrisse ispirandosi al poema del “Giovane Aroldo” (opera letteraria dal famoso poeta inglese Lord Byron) in cui fa riferimento all’Abruzzo, con la sua gente di montagna, i pellegrini e persino i briganti, descritti dal musicista francese come “uomini liberi”.
La “Serenata di un montanaro degli Abruzzi” gli fu commissionata dal celebre Niccolò Paganini. (se desiderate ascoltarla la trovate su YouTube o Spotify digitando: Sérénade d’un Montagnard des Abruzzes à sa maitresse – Harold en Italie).
La Sérénade di Berlioz è dunque una sinfonia di musica classica conosciuta in tutto il mondo che trae origine da un brano della musica popolare, in questo caso abruzzese, ma non è la sola.
Anche il celebre compositore George Friedrich Handel fu ispirato dalle melodie delle zampogne e dei pifferi abruzzesi, come per il francese Berlioz incontrati per le strade di Roma durante il periodo natalizio.
Nel suo capolavoro sinfonico il “Messiah” Handel ha inserito un breve brano pastorale per archi e violino dal titolo “Pifa“.
Oltre a Berlioz e Handel, altri famosi personaggi che intrapresero i viaggi in italia, i cosiddetti “Grand Tour”, rimasero affascinati da zampognari e pifferai abruzzesi, dai loro canti, le melodie e i costumi tradizionali: Goethe, Lear, David Wilkie, Stendhal e Dickens.
Ho notato solamente a Roma una musica strumentale popolare che tendo a definire come un resto dell’antichità: parlo dei pifferari. Ho ascoltato poi i pifferari nelle loro terre e, se li avevo trovati così notevoli a Roma, l’emozione che ho ricevuto fu molto più viva nelle montagne selvagge dell’Abruzzo.”
Tratto dalle memorie di viaggio di Hector Berlioz. (3)
Bartolomeo Pinelli – Zampognaro e suonatori di pifferi, 1834 – Archivio Federico Zeri
Abruzzo, panorama campestre – Foto Leo De Rocco
Pastore abruzzese suona il flauto, 1911, Niels Frederik Schiottz-Jensen – Imago Museum Pescara – Foto Leo De Rocco
Pastore abruzzese di Civita d’Antino suona il flauto, 1902, Gad Frederik Clement – Imago Museum Pescara – Foto Leo De Rocco
Molti pensano che la canzone popolare abruzzese sia costituita solo da testi ironici, allegri e spensierati ma, come abbiamo visto, spesso sono presenti temi poetici, malinconici, tormentati, intensi, che parlano di nostalgia, di malinconia, di fede, di amori più o meno corrisposti, di amori finiti o lontani.
Nella canzone popolare abruzzese un posto di rilievo avevano le ormai dimenticate Maggiolate Ortonesi. La Maggiolata era un vero e proprio festival della canzone popolare abruzzese, una sorta di Sanremo in versione locale, e come a Sanremo non mancavano i fiori che addobbavano i carri sui quali sfilavano i ragazzi e le ragazze dell’epoca che formavano i cori popolari.
I cori delle Maggiolate francavillesi – Archivio storico Iacone
La prima Maggiolata si tenne a Francavilla al Mare nell’aprile del 1888 in occasione di una piccola rassegna canora organizzata da Francesco Paolo Tosti e Francesco Paolo Michetti nel piazzale antistante il Convento Michetti.
L’occasione fu la presentazione di una canzone dialettale scritta dall’economista e scrittore francavillese Tommaso Bruni dal titolo “La viuletta” (La violetta), brano musicato dallo stesso Tosti (in seguito col titolo: “Se na scingiate te putesse dà” – traduzione: Se potessi darti una strapazzata) e fatto eseguire ad un gruppo di ragazze del posto vestite con i costumi abruzzesi tradizionali.
Anni dopo a Ortona, nel 1920, precisamente il 3 maggio festa del patrono San Tommaso, in ricordo di quell’evento francavillese si organizzò una vera e propria rassegna canora, nacque così la Maggiolata ortonese il cui artefice fu il pronipote di Tosti, Guido Albanese (Ortona, 1893 – Roma, 1966) e il poeta Luigi Dommarco (Ortona, 1876 – Roma,1969).
Francavilla al Mare – Targa commemorativa della canzone dialettale abruzzese – Foto Leo De Rocco
Guido Albanese
Ortona, coro di Maggiolata – Archivio storico Iacone
Ortona, Maggiolata – Archivio storico Iacone
Nella maggiolata del 1947, quando Ortona e Francavilla risultarono distrutte, a Ortona i combattimenti furono aspri e Francavilla praticamente fu rasa al suolo, una canzone popolare scritta da Guido Albanese ricordava così le due cittadine adriatiche:
“Ci manche all’adriatiche ‘na perle” (traduzione: All’Adriatico manca una perla), poi continuava:
O Urtona, Urtona me, tutte stu dulor chi li po’ dice… O Francavì, spiaggia d’or ‘ddó stiè tu? …La guerre s’è fermat a sta cuntrade e je nen sacce piange cchiù“… Fa rimiení, Signore, lu serene, ca tu sole li puo’ fa, e rinasce dopo tante e tante pene, sti ddu perle de città.
Traduzione
” Oh Ortona, Ortona mia, tutto questo dolore chi lo può raccontare? …O Francavilla, eri una spiaggia d’oro, dove sei finita? …La guerra si è fermata (a distruggere) queste contrade ed io non ho più la forza di piangere… Fa tornare, o Signore Dio, il sereno, perché tu solo lo puoi fare, e fa rinascere, dopo tante e tante pene, queste due perle di città. “
Ortona, dicembre 1943
Francavilla al Mare, 1943-44 – Archivio storico Iacone
Alcuni testi musicali dei canti corali eseguiti nelle Maggiolate come “Tutte le funtanelle” sono rimasti impressi nella memoria popolare abruzzese.
Lo stesso Gabriele D’Annunzio cita questa canzone nel terzo romanzo della sua trilogia “della Rosa” e fa cantare “Tutte le funtanelle se so’ seccate” a cinque graziose ragazze di San Vito Chietino, intente a raccogliere i fiori:
In un pianoro dove le ginestre fiorivano con tal densità da formare alla vista un sol manto giallo, d’un colore Sulfureo, splendidissimo.
Negli anni ’50 fu Guido Albanese a musicare “Vòla, Vòla, Vòla” (su testo dell’ortonese Luigi Dommarco) considerato l’inno musicale dell’Abruzzo popolare e folcloristico. La canzone, scritta nel 1922, vinse a Parigi il Festival della Canzone Popolare Italiana nel 1953, in quella occasione fu cantata dal duo Carla Boni e Gino Latilla.
Parlando di Ortona come non ricordare Francesco Paolo Tosti e il suo contributo alla canzone popolare non solo abruzzese, ma anche napoletana: la celebre “Marechiare”, conosciuta in tutto il mondo fu musicata proprio da Tosti, oppure “A vucchella”, scritta e musicata insieme a Gabriele d’Annunzio.
Oltretutto Francesco Paolo Tosti, insieme a Francesco Paolo Michetti, Michele Cascella ed altri artisti, fondò nel 1922 una associazione musicale dedicata alla madre di d’Annunzio (donna Luisa de Benedictis) che costituì la base per la fondazione del Conservatorio di Musica a Pescara.
Eremo Dannunziano, San Vito Chietino – foto Leo De Rocco
San Vito Chietino, la casa-eremo degli amanti, Gabriele d’Annunzio e la romana Barbara Leoni – Foto Leo De Rocco

Coro di Orsogna a Venezia, vincitore di una rassegna canora nel 1929 (le donne orsognesi erano famose per i loro vistosi ornamenti con gioielli della tradizione abruzzese) – per gentile concessione Archivio Museo delle Genti d’Abruzzo
La locandina del Festival della canzone Italiana a Parigi, 1953 – Collezione privata
Francesco Paolo Tosti sulla spiaggia di Francavilla al Mare – Archivio Museo Musicale Ortona, Casa Museo Tosti
Ortona, monumento a Francesco Paolo Tosti, agli inizi del ‘900 si trovava nella piazza di fronte al Teatro (al centro, ora si trova sul lato – rappresenta il Maestro Tosti con un gruppo di coriste – Collezione privata
“A vucchella” di Francesco Paolo Tosti e Gabriele D’Annunzio in una vecchia incisione 33 giri del tenore Enrico Caruso
Ortona, Salone per l’ascolto della radio, inizi ‘900 – Archivio “Ortona, com’era?” Pagina FB
Concludo questo articolo con un ricordo del grande Ivan Graziani (Teramo, 1945 – Novafeltria, 1997). Nel suo primo album di successo, “I Lupi”, pubblicato nel 1977, album che contiene una delle sue canzoni più famose: “Lugano addio”, il cantautore teramano omaggiò la sua terra inserendo un brano dolce e delicato in dialetto abruzzese dal titolo “Ninna nanna dell’uomo”:
Ciel chiar dindr’ all’occhie, mezz a lu mar’ tu nnì stat maje, e li cullin pù che t’ha criat’, nu jorn tu ti d’artuvà. Tu nna da cunosce lu dolor, mbaccia a lu vend com’ na querce antica, tu a ddà sfidà lu monn’ e chi ce sta, e lu curagge nun t’dà mancà. Ninna, ninna nanna, durm tu che può, durm tu che può, ninna nanna, ninna oh. Mo’ se tu mi stat’ a sentì, stu core zull ca’ mu ti, come na montagna gruoss s’farà, ma sol amore c’ha da stà. Ninna ninna nanna, durm tu che può, durm tu che può, ninna nanna, ninna oh.
Traduzione
”Cielo chiaro dentro ai tuoi occhi, in mezzo al mare tu non ci sei stato mai, e le colline che ti hanno creato un giorno ritroverai.
Tu non devi conoscere cos’è il dolore, contro il vento come una quercia antica tu dovrai sfidare il mondo e chi ci sta’, ed il coraggio non ti deve mai mancare.
Ninna, ninna nanna dormi tu che puoi, dormi tu che puoi, ninna nanna, ninna-oh…
Adesso se tu mi hai ascoltato, quel cuore piccolo che hai come una montagna si farà, ma solo amore ci deve stare.
Ninna, ninna nanna, dormi tu che puoi, dormi tu che puoi, ninna nanna, ninna oh.”
Leo De Rocco
Copyright © Foto e testo – All rights reserved – È vietato l’uso e la riproduzione, anche solo parziale, del testo e delle foto presenti in questo articolo senza autorizzazione scritta. derocco.leo@gmail.com
Fonti / Foto storiche / Note: (1) “Storia locale. Abruzzo-Francavilla 8/900“, realizzazione e ricerca iconografica di Giuseppe Iacone, Editore Emidio Luciani – 1978; (2) Le Farchie sono enormi fasci di canne alti circa otto metri, che vengono accesi la sera della vigilia della festa di Sant’Antonio creando un’atmosfera suggestiva. L’evento richiama molti turisti. (3) Dal libro “Li chiamavano Pifferari” di Antonio Bini, Edizione Menabò 2013 –
Pictures, it is forbidden to use any part of this article without specific authorisation – Foto contemporanee: Leo De Rocco – Francavilla al Mare, 2013; Atri, marzo 2015; Punta Aderci, Vasto, luglio 2015. Autore/Blogger: Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni blog.