Copertina: il Lago del Fucino dipinto da Alessandro D’Anna, 1795, Museum of Fine Arts Budapest.
Un lago incantevole
I più recenti preferiscono nominarlo il lago di Celano, poiché è di tale ampiezza ed amenità che è reso caratteristico, in parte dai colli, in parte dalla vasta pianura che si apre al di qua e al di là di esso e dai molto grossi villaggi e fortini simili ad una corona e dalla salubrità di una ininterrotta ventilazione; dalle sorgenti al sud (ove volge) scorre verso un luogo più basso e avvallato con una corrente continua ma lenta, dalla quale si originano alcuni gorghi, per cui l’acqua è dolce e buona da bersi e quelli che abitano il bosco di Trasacco e di Ortucchio soddisfano la loro sete. È anche salubre per bagni: cura infatti la scabia e altre malattie che provengono da infiammazione del fegato. È ricco di molti pesci, dei quali si nutre Roma, il Lazio e tutta la regione fino a sessanta miglia e oltre. Muzio Febonio.
Introduzione
Nella sua monumentale Historia Marsorum, Muzio Febonio descriveva il Lago Fucino come un luogo incantevole, pescoso e salubre: un mare interno, che con limpidezza vitrea rifletteva i monti e i cieli della Marsica rappresentandone l’anima, come fonte di vita, risorsa economica, paesaggio dell’immaginazione e scenario di antiche leggende.
Eppure, dietro quella calma superficie si celava anche una sfida millenaria tra l’uomo e la natura: dagli ambiziosi tentativi di Claudio e Adriano di domarne le acque, ai sogni di potere dei Conti di Celano e dei Piccolomini, fino all’impresa titanica dei Torlonia, che nell’Ottocento ne decretarono la definitiva scomparsa. La storia del Fucino è un racconto di ingegno, fatica e trasformazione.
Oggi, dove un tempo si specchiavano le vele dei pescatori, si estende una pianura fertile, geometrica, solcata da canali e strade dritte come linee di un quaderno. Qui convivono memoria e modernità: le radici contadine e le parabole di Telespazio.
Questo viaggio, da Pescina a Capistrello, è il racconto di un luogo che non ha mai smesso di cambiare, che continua a conservare tra le zolle della sua terra il riflesso del lago che non c’è più.
Pescina e Silone
In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni (1).
Da Pescina, per scorgere il Fucino, bisogna salire sulle alture del paese e raggiungere la Torre di San Berardo. Da lassù, la Piana Fucense si intravede in lontananza e solo in parte. Per ampliare il panorama occorre salire ancora, fino alla Torre Piccolomini.
Pescina non era uno dei paesi un tempo chiamati rivieraschi, ma per conoscere la storia del Fucino bisogna partire proprio da qui, dal paese di Ignazio Silone, perché quella del Lacus Fucinus non è solo la storia di una grandiosa opera di ingegneria idraulica, com’è noto realizzata dall’imperatore Claudio e perfezionata secoli dopo da Alessandro Torlonia, ma è anche la storia degli ultimi, di chi viene “dopo Dio e dopo il nulla”, di chi nella storia ha sempre cercato il riscatto sociale sperando in un futuro migliore.
La casa dove nacque Silone (Pescina, 1900 – Ginevra, 1978) si riconosce facilmente passeggiando tra le vie del bel centro storico dove, tra edifici di epoca medievale, spicca la facciata della chiesa di Sant’Antonio da Padova, anticamente intitolata a San Francesco, realizzata da Giovanni Artusi Canale (Pescina, 1610 – 1676), scultore che fece parte delle maestranze dirette da Gian Lorenzo Bernini, impegnate nella realizzazione della Cattedra di San Pietro e del famoso Colonnato di Piazza San Pietro.
Quella di Silone è una casa massiccia, con un bel portale e graziose finestre in stile tardo gotico, quasi rinascimentale. Sono piccole, come le finestre delle case di montagna, circondate da grandi pietre bianche che parlano di solidità e stabilità, ma il terribile terremoto del 1915, uno dei più disastrosi della storia italiana, tirò giù pure quelle pietre e con esse tutta la Marsica.
Restaurata nel 2020, oggi è diventata una Casa-Museo grazie agli eredi dello scrittore pescinese, a un Fondo internazionale e al Comune di Pescina. All’interno gli ambienti sono arredati con mobili provenienti dalla casa romana di Silone e da altri arredi originali, datati ai primi del Novecento. Il caminetto è quello originale dell’epoca. In mostra fotografie, libri, oggetti personali, la giacca e la valigia, i cimeli, i premi e i riconoscimenti. C’è anche la mitica Olivetti lettera 82, la macchina da scrivere compagna inseparabile dello scrittore.
Il percorso espositivo ricostruisce la sua vita personale e intellettuale, ad iniziare dal citato terremoto, che non lasciò scampo a sua madre Maria Annina e a suo fratello maggiore Domenico, rimasti entrambi sepolti sotto le macerie di questa casa. Un triste evento che segnerà per sempre la vita del giovane Secondino Tranquilli, questo era il suo vero nome. Il 13 gennaio 1915 firmandosi “Secondo” da Chieti scrive a suo fratello Romolo:
Ahimè! Sono dovuto tornare a Pescina, che il seminario di Chieti l’ha requisito il governo come ospedale militare. Ho rivisto con le lacrime agli occhi le macerie; sono ripassato tra le misere capanne, coperte alcune da pochi cenci come i primi giorni, dove vive con una indistinzione orribile di sesso, età e condizione la povera gente. Ho rivisto anche la nostra casa dove vidi, con gli occhi esausti di piangere, estrarre la nostra madre […] pare che ci chiami a stringerci nel suo seno. Ora cosa farò? Baci affettuosissimi, Secondo.
Pannelli informativi, corredati da fotografie storiche, raccontano lo “strano prete” Don Orione; la morte del fratello Romolo nel carcere di Procida; la produzione letteraria; il difficile rapporto con l’allora PCI, partito che lui stesso contribuì a fondare, ma che non accettò il suo pensiero politico. Un destino, quello di Silone, per certi versi simile a quello che segnerà anni dopo anche un altro intellettuale lungimirante ma per qualcuno scomodo: Pier Paolo Pasolini.
Il paese di Silone è la prima tappa di questo viaggio nella storia del Fucino anche perché proprio qui il Giovenco, il fiume che fino al 1875 era il principale immissario del Lago Fucino, dopo aver lasciato la valle che porta il suo nome, attraversa l’abitato e, scendendo in direzione della piana, va ad immettersi nei canali fucensi, fino all’ipogeo dell’Incile Torlonia.
Il Giovenco è un fiume tutto marsicano, nasce dal monte Pietra Gentile, a 1250 metri d’altezza, in località Campomizzo, nei pressi del piccolo paese di Bisegna. A valle, prima di raggiungere i canali fucensi e l’emissario scavato nel Monte Salviano, oltre a Pescina attraversa anche Ortona dei Marsi e San Benedetto dei Marsi.
È un fiume talmente marsicano che gli antichi Marsi, il popolo italico che tra i boschi sulle rive del Lago Fucino venerava la dea Angizia, incantatrice dei serpenti e conoscitrice delle erbe contro gli avvelenamenti, lo consideravano un fiume sacro, celebrandolo alla sua sorgente con il nome di “Pitonius”.
Pitonius diventerà Giovenco nel 90 a.C., un omaggio al condottiero sannita Iuvenzio durante la Guerra Sociale contro Roma, nella quale emerse anche quel Quinto Poppedio Silone, valente comandante degli italici, che ispirò il nuovo nome a Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone. Ignazio è invece ripreso da Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù.
Una guerra che diede del filo da torcere ai romani, perché il popolo dei Marsi non ci pensava proprio a farsi sottomettere, anzi, reclamava a gran voce il riconoscimento della cittadinanza. Nec sine Marsis nec contra Marsos, thriumphari posse, “Non si può vincere né senza i Marsi, né contro di essi”, ricorda ai passanti un colorato murales dipinto su un edificio di Ortucchio.
Per Silone il riscatto sociale dei Marsi segnò un punto fondamentale nella sua formazione giovanile. In questo senso, restando nella Marsica, un fil rouge collega il murale di Ortucchio con la capitale abruzzese dei murales: Aielli, dove nell’estate 2018 l’artista Andrea Parente, nome d’arte Aleg, realizzò una vera e propria impresa, trascrivendo parola per parola l’intero romanzo Fontamara sulle pareti che costeggiano la medievale Torre delle Stelle.
Il cardinale Mazzarino, da Pescina alla al governo del regno di Francia
Pescina accoglie il Giovenco con un parco fluviale, luogo ameno a due passi dal centro storico, ideale per lunghe passeggiate all’ombra di fitti boschi e immersi in un silenzio rotto solo dallo scroscìo delle piccole cascate create dallo scorrere del fiume.
All’ingresso del parco si fa notare, arroccata sopra uno sperone roccioso, una loggetta rinascimentale: era la terrazza della casa dove nacque un altro pescinese famoso nel mondo, il cardinale Giulio Raimondo Mazzarino (Pescina, 1602 – Castello di Vincennes 1661). Qui visse la sua infanzia prima di trasferirsi a Roma. La famiglia era di origine siciliana, dopo gli studi a Roma dai Gesuiti e una fortunata scalata sociale, Mazzarino diventerà il primo ministro di Luigi XIV e governerà la Francia del re Sole dal 1642 al 1661. Prima di lui il cardinale Richelieu.
Un personaggio storico affascinante, la cui biografia sembra più un romanzo, non a caso a lui si ispirò Alexandre Dumas (1802-1870), per uno dei suoi scritti più celebri: I tre Moschettieri. Lo scrittore francese probabilmente aveva un debole per la Marsica, scelse come protagonista di un altro suo romanzo, Ascanio, un ragazzo di Tagliacozzo, allievo prediletto di Benevento Cellini e orafo ufficiale alla corte francese di Francesco I ed Enrico II. Per la storia completa di Ascanio de’ Mari, si rimanda all’articolo: “Ascanio da Tagliacozzo e Benvenuto Cellini”.
Il Cardinale Mazzarino è stato anche un mecenate, collezionista e amante del bello, diamanti compresi. Il famoso Grand Mazarin, diamante di oltre diciannove carati recentemente passato in asta da Christie’s, faceva parte della sua collezione, oltre al tesoro della Corona di Francia e alla quadreria, una delle più ricche dell’epoca, oggi divisa tra il Louvre e le Gallerie Mazarin. Altrettanto ricca era la sua biblioteca, composta da circa 50 mila volumi, che costituì la base per la fondazione dell’attuale Bibliothèque Mazarine, prestigioso istituto culturale francese che collabora con la Casa-Museo Giulio Mazzarino di Pescina, gestita dal Comune e presieduta dal pescinese Franco Francesco Zazzara, chirurgo, scrittore e studioso, appassionato di storia, in particolare delle origini del cristianesimo.
Mentre visito il Museo Mazzarino, il dott. Zazzara, come un fiume in piena, mi racconta le origini dei nomi delle città marsicane, e così scopro perché anticamente Ortucchio si chiamava “Ortygia” e da dove deriva il nome “Pitonius” riferito al fiume Giovenco. L’argomento suscita interesse e curiosità anche tra alcuni turisti appena giunti in visita a Pescina.
L’edificio originario crollò a causa del terremoto del 1915, si salvò solo quella romantica loggetta, dalle cui bifore il piccolo Giulio si affacciava per guardare il Giovenco scorrere dolcemente in direzione del Fucino. La casa attuale fu ricostruita nel 1971, grazie anche al mecenate milanese Gervaso Rancilio e alla direttrice della Biblioteca Mazzarino a Parigi, madame Madeleine Laurien Portemer, membro dell’Accademia di Francia. Il Museo conserva inoltre documenti originali sulla vita di Mazzarino.
Celano e Ortucchio
Dopo la Valle del Giovenco, Pescina e Silone, ora il Fucino comincio a sentirlo più familiare. Lo osservo dall’alto, affacciato da uno dei finestroni tardo medievali dell’imponente Castello di Celano, immaginando quando da questi stessi affacci i Conti di Celano e i Marchesi Piccolomini ammiravano un panorama bellissimo: il cielo e le nuvole specchiati sulla superficie del lago, attraversata al tramonto da decine di piccoli puntini luminosi: le piccole barche dei pescatori illuminate dalle lanterne.
Nella storia dei Conti di Celano il personaggio più celebre è stata una donna: la contessa Covella, protagonista di una vicenda straordinaria tra Medioevo e Rinascimento. La sua biografia, recentemente ricostruita dalla studiosa avezzanese Veneranda Rubeo, restituisce voce a un’epoca in cui le donne sapevano governare con intelligenza e fermezza. Sul tema vedi l’articolo: “Celano tra storia e leggenda. Covella, l’ultima contessa”.
Ultima erede dei Conti dei Marsi, Covella vide passare alla fine del Quattrocento il suo vasto potere ad Antonio Piccolomini, nipote di papa Pio II. Da allora il Castello di Celano prese il suo nome e, per l’occasione, fu ampliato nella forma attuale. Piccolomini si chiamano anche la Torre di Pescina e il Castello di Ortucchio. Quest’ultimo, fino al 1862, si affacciava direttamente sulle acque del Fucino e custodiva persino una rimessa per le barche, accanto a una torre portuale e una pescheria. Non a caso in epoca medievale “Ortygia” era un’isola. E così il marchese Piccolomini, che tra l’altro conquistò pure il feudo di Capestrano, poteva raggiungere il Castello di Ortucchio in barca.
A Ortucchio un frammento del Lago Fucino
L’atmosfera che creava il Fucino, con le barche dei pescatori e i piccoli fari, i riflessi del tramonto e i ciliegi in fiore che lambivano le rive, oggi possiamo solo immaginarla, magari leggendo i racconti di viaggio, a volte romanzati, dei protagonisti dei Grand Tour ottocenteschi, come Edward Lear e Alexandre Dumas, oppure osservando la piana fucense nei giorni in cui la nebbia la ricopre e sembra restituirci il lago che non c’è più.
Eppure, un frammento di quel lago dalle acque così trasparenti da spingere Virgilio a definirle “vitree”, dove gli antichi romani amavano trascorrere i loro svaghi e i Marsi veneravano la dea Angizia, dove il prosciugamento portò il benessere passando per la fatica e la miseria denunciati da Silone, sopravvive ancora: è il piccolo Lago di Ortucchio, uno lembo del Lacus Fucinus, o quello che ne rimane, perché nelle estati ormai sempre più calde e siccitose questo riflesso antico di memoria quasi scompare.


Pescina – Torre di San Berardo, tomba di Ignazio Silone – L’autore di Fontamara scelse di essere sepolto qui, “Guardando il Fucino”, lasciò scritto. La Torre è ciò che resta del vecchio campanile della chiesa dedicata a Berardo dei Marsi, patrono di Pescina e della Marsica – Foto e video Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni




Pescina – Casa-Museo Ignazio Silone; Centro storico e portale della Chiesa di Sant’Antonio da Padova, con lo stemma dei Conti di Celano – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni


Statua in terracotta raffigurante la Dea Angizia (attribuita) Celano, Museo Paludi e il Lucus Angitiae a Luco dei Marsi – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni




Pescina – Valle del Giovenco e Parco Fluviale – foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni




Pescina – Casa Museo Giulio Mazzarino, la torretta rinascimentale della casa e i “brillanti” del Cardinale – Foto sotto: Celano, Castello Piccolomini – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni


Ortucchio, il murales con la frase attribuita ad Appiano di Alessandria – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

L’ingresso al Castello di Celano ‐ Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Panorama sul Fucino da una finestra del Castello di Celano, immaginando di vedere il grande lago.




L’isola di Ortucchio in una mappa tratta dall’Atlante Torlonia – Foto Leo De Rocco – a seguire il Lago del Fucino dipinto da Alessandro D’Anna, 1795, Museum of Fine Arts Budapest e Jean-Joseph Xavier Bidauld, 1789, Metropolitan Museum New York





Lago e Castello di Ortucchio – Foto Leo De Rocco – il limite delle acque nel 1862, indicato sulla parete del castello rivolta in direzione dell’attuale Lago di Ortucchio. Il Castello era dotato di una rimessa per le barche (visibile nella prima foto), una pescheria e una torre portuale.

La strada Ultrafucense 19 attraversa il Fucino – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni
“Navigando” sulla Ultrafucense 19, fino ai Cunicoli di Claudio
Dopo Pescina, Celano e Ortucchio, inizio ad avere la misura di questa immensa piana, un tempo coperta dal terzo lago più grande d’Italia, dopo il Garda e il Maggiore. Lasciato il Castello di Celano, imbocco la Ultrafucense 19 per raggiungere la “riva” opposta, alla ricerca dei Cunicoli di Claudio e dell’Incile Torlonia. Quando il geografo greco Strabone fece nel I sec.d.C. più o meno la mia stessa strada, ma in barca come il marchese Piccolomini, annotò che il Fucino gli sembrava “un mare”. E in effetti la strada fucense sembra non finire mai.
Oltre Strabone, il grande lago affascinò storici, artisti e viaggiatori di ogni epoca, ma accanto ai panorami romantici suscitò anche timori: non era placido e prevedibile, mancava un emissario capace di regolare le acque del Giovenco, e così il livello del lago variava di stagione in stagione, talvolta fino a sommergere i campi.
Per questo il rapporto tra il Fucino e la popolazione dei paesi rivieraschi fu segnato da amore e odio. A volte tradiva i suoi pescatori con periodi di secca e altre tradiva i contadini, grati per i raccolti resi abbondanti dalla mitezza del clima lacustre, ma non di rado messi in pericolo, insieme al raccolto, da repentine inondazioni. Quel lago andava perciò domato. È quello che pensò l’imperatore Claudio circa venti anni dopo la crociera sul Fucino di Strabone.
I primi turisti del lago furono proprio i romani, del resto il Fucino era il più grande e il più vicino alla capitale dell’Impero. E’ probabile che famiglie patrizie vi costruirono ville per trascorrere l’inverno, attirate dal clima mite e dal paesaggio incastonato tra le montagne marsicane. Un po’ come accadde sulla costiera amalfitana o a Capri, da dove Tiberio governò l’Impero per un decennio.
Per avere un’idea del paesaggio e delle antiche architetture rivierasche del Fucino ai tempi dei romani si può visitare la Sezione Archeologica della Collezione Torlonia allestita nel Castello di Celano. Tra i reperti recuperati durante il prosciugamento ottocentesco spiccano alcuni rilievi calcari scolpiti in età imperiale (II sec. d.C.). Si tratta di due grandi lastre e tre frammenti.
Sono come fotografie scolpite nella pietra, mostrano ville, case, terrazze, boschi e giardini, un ponte su un fiume, la statua di una dea, loggiati con colonne corinzie, un tempio, un teatro, e ancora uomini che spingono assi tra argani e corde, forse sono gli operai dell’imperatore Claudio mentre scavano uno dei pozzi, oppure mentre aprono le paratie.
Sotto di loro, due imbarcazioni attraversano le onde, con tanto di rematori e vessilli issati al vento del lago, una specie di Pelèr. Tra le onde increspate sembrano spuntare le cime di due palme, forse la testimonianza di una recente inondazioni, oppure è la rievocazione di una naumachia.
Queste antiche fotografie scolpite nella pietra forse sono immagini idealizzate, ma restano testimonianze straordinarie. Si pensa che i rilievi fossero collocati presso uno degli ingressi ai cunicoli, come segno di propaganda e memoria. Del resto, i romani sapevano bene come celebrare le proprie opere, e quella di Claudio rimase per secoli la più grande opera di ingegneria idraulica mai realizzata dall’uomo, e tale rimase, fino al Traforo del Frejus, nel 1871.
Claudio non voleva prosciugare del tutto il lago, ma controllarnele acque. La mancanza di un emissario causava piene improvvise e l’obiettivo degli ingegneri imperiali era permettere il regolare deflusso verso il fiume Liri. Un progetto Giulio Cesare aveva già ideato ma che non riuscì mai a realizzare.
Ecco un’altra tappa fondamentale per conoscere il Fucino: attraversare i Cunicoli di Claudio. Impresa non facile, le rare visite sono organizzate grazie all’impegno della Soprintendenza dell’Aquila e delle associazioni locali, e le prenotazioni sono sempre numerose.
Ma per conoscere bene il Fucino bisogna scendere in questi cunicoli, attraversarli sfiorarare con mano le gelide rocce scavate migliaia di anni fa dai romani che, contrariamente a quanti ancora oggi erroneamente pensano, quel lago non volevano affatto farlo sparire, ma solo facilitare il deflusso delle sue acque. Sono tanti i luoghi comuni e i falsi storici ancora oggi diffusi, come la storiella che descrive tout court il terzo lago più grande d’Italia come “una palude malarica” e, per questo motivo si rese “necessario prosciugarlo”. Probabilmente sono retaggi ottocenteschi privi di fonti certe e documentate.
L’impresa di Claudio
L’opera di Claudio fu conclusa nel 52 d.C., dopo 11 anni di lavori, in condizioni estreme. Una galleria di quasi sei chilometri (5.653 metri) scavata nella roccia viva con picconi e secchi metallici. Svetonio racconta che per i lavori furono impiegati ventimila schiavi, oltre a diecimila carpentieri, mentre Plinio il Vecchio descrive turni implacabili:
Si dovette tagliare con lo scalpello la roccia viva e ogni lavoro si dovette approntare a turni implacabili, nelle viscere del monte nella più totale oscurità; cose queste che non possono essere comprese se non da chi le vide, né il linguaggio umano è capace di descriverle.
Nell’Atlante Torlonia, un volume ottocentesco illustrato con mappe e disegni, fatto stampare dal principe Alessandro Torlonia per celebrare la sua impresa fucense e sfoggiarne i dettagli nei salotti romani frequentati da nobili, industriali, politici e cardinali, appare un secchio metallico, descritto come “secchio romano impiegato nella estrazione degli sterri della galleria”, dimenticato nei cunicoli dagli operai descritti da Plinio il Vecchio e ritrovato durante i lavori del prosciugamento ottocentesco.
Oggi è esposto nella sezione di archeologia del Castello di Celano, ed è verosimile risalga al periodo medievale, quando Federico II ordinò lavori di rimozione dei detriti accumulati nei cunicoli. In ogni caso, quel secchio è un simbolo della fatica condivisa di generazioni di operai e minatori, al comando del potente di turno: da Claudio a Torlonia. Le loro disperate condizioni di lavoro non erano molto diverse dalle miserie vissute e dalle ingiustizie subite dai “cafoni” raccontati da Ignazio Silone.
Per celebrare la fine dei lavori fu organizzata una naumachia con cento galee sul lago. Tacito racconta di un Claudio desideroso di “commemorare l’evento con una solennità tale che ne superasse ogni altra, sia in grandezza che in splendore”. Svetonio sottolinea invece una frase, poi resa celebre dalla letteratura e dal cinema:
Ave imperator, moritura te salutant! (1)
Le cronache raccontano di un pubblico immenso. In prima fila ovviamente la famiglia imperiale, con l’imperatore Claudio, “avvolto” – scrive Tacito – “in uno splendido mantello”, e sua moglie Agrippina, “ricoperta da una clamide dorata”. Insieme alla coppia imperiale il piccolo Nerone e la corte.
Ma la grande inaugurazione non andò come previsto. Le gallerie si rivelarono insufficienti per il deflusso delle acque Si dovette quindi scavare ancora, e per intrattenere il pubblico si svolsero sfide tra gladiatori. Quando furono riaperte le paratie il deflusso delle acque fu troppo violento, parte dei ponteggi di legno furono trascinati via, e Agrippina d’oro vestita – il busto che la ritrae fu ritrovato vicino al lago, nei pressi di Alba Fucens – andò su tutte le furie, accusando, racconta Tacito, il liberto Narciso, uno dei responsabili dell’appalto dei lavori. Anni dopo Narciso, non estraneo agli intrighi di corte, farà di tutto per contrastare il figlio di Agrippina, Nerone, alla successione imperiale, ma arrestato e privato delle sue ricchezze accomulate, si suicidò.
Così, tra grandiose celebrazioni e tragedie umane, l’impresa del Fucino entrò nella storia come una delle più audaci del mondo romano. E ancora oggi, attraversando i cunicoli sotto il Monte Salviano, sembra di udire l’eco di quei colpi di piccone, il suono antico del coraggio e della fatica.





I bassorilievi del Fucino, II sec.d.C. – Sezione Archeologia Museo Castello di Celano – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni







Parco Archeologico dei Cunicoli di Claudio, Avezzano – Foto e video Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni





Una nave romana sul Fucino su un bassorilievo del II sec.d.C. – Antico secchio usato per trasportare pietre e rocce estratte dai cunicoli del Fucino – Collezione Archeologica Torlonia, Castello di Celano – Combattimento tra gladiatori – Chieti, Museo Archeologico Nazionale La Civitella – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni


Busto di Agrippina Minore, bronzo argentato, ritrovato ad Alba Fucens – Museo Archeologico Napoli – Cameo con l’immagine dell’imperatore Claudio ritrovato a Corfinio – Museo Archeologico di Corfinio – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni
I Torlonia e la scomparsa del Lago
Dopo l’imperatore Claudio, i lavori di manutenzione del grande emissario del Fucino furono eseguiti da Traiano e soprattutto dal suo successore, Adriano. Poi, con la caduta dell’Impero e le invasioni barbariche, tutto venne abbandonato. Solo in epoca medievale si registrarono nuovi interventi di pulizia dei cunicoli, prima sotto Federico II e poi, nel Regno di Napoli, con Alfonso I d’Aragona. Ma furono opere parziali, non sufficienti per impedire nuove inondazioni. Bisognerà attendere la metà dell’Ottocento per vedere nascere un progetto più ambizioso: non più semplici manutenzioni, ma il prosciugamento totale del lago.
Nel 1853 venne costituita una società per azioni, e tra i soci comparve un nome destinato a segnare per sempre la storia del Fucino: Alessandro Raffaele Torlonia (Roma 1800 – 1886), proprietario del 50% delle azioni. Il contratto prevedeva che la società restasse proprietaria dei terreni prosciugati per novant’anni.
Le origini dei Torlonia affondano nella Roma barocca, tra Sei e Settecento, quando dalla Francia giunse in Italia Marin Tourlonias, figlio del capostipite Antoine, un contadino dell’Alvernia. Già in questa prima fase della loro storia il destino dei Tourlonias incrocia l’Abruzzo: dopo essere stato introdotto negli ambienti clericali italiani da un abate francese, Marin a Roma divenne cameriere personale di Troiano Acquaviva d’Aragona, figlio del duca di Atri Giovan Girolamo, nonché protettore del famoso avventuriero Giacomo Casanova. Sulla storia di Atri si rimanda all’articolo: “Ari, tra Adriano e Andrea de Litio”.
Italianizzatosi in Marino Torlonia, nel 1753 sposò Mariangela Lanci e grazie alla eredità ricevuta da un cardinale iniziò ad accumulare ricchezze vendendo tessuti in Piazza di Spagna. Il figlio di Marino, Giovanni Raimondo (1754 – 1829), padre di Alessandro Torlonia, fondò anche una piccola banca che consolidò il potere economico della famiglia. Nel 1840 Alessandro Torlonia sposò Teresa Colonna, rampolla di una delle famiglie più antiche di Roma. La coppia avrà due figlie: Anna Maria, morta in giovane età e Giovanna Carolina, sposata a Giulio Borghese, matriarca della dinastia Borghese-Torlonia.
L’inizio del prosciugamento nell’anno del dogma della Immacolata Concezione
Nel 1854, l’anno della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, iniziarono i lavori per prosciugare il Fucino, il cattolicissimo Torlonia, intanto diventato unico proprietario della società, da quel momento farà erigere lungo la piana numerose madonnine, come segna confine e come limite delle acque.
La statua più grande, alta sette metri, fu collocata nel 1876 presso l’Incile del Fucino, ma crollò nel terremoto del 1915 che distrusse Avezzano. Restò in piedi solo una casa, da allora oggetto di studio da parte di architetti e ingegneri di mezzo mondo, e una costruzione lignea: il Casino da caccia (Padiglione Torlonia), realizzato da maestri falegnami romani e installato a Villa Torlonia. Sull’argomento si veda l’articolo “Villa Torlonia, memorie di un sogno”.
Residenza estiva della famiglia, Villa Torlonia fu costruita tra il 1870 e il 1875, proprio mentre le ultime acque del lago scomparivano. Dopo il sisma, il palazzo fu ricostruito nel 1925, priva della torre dell’orologio, ma sempre sontuoso, con interni affrescati che celebrano la grande impresa idraulica. Oggi il complesso, chiuso per restauri, custodisce giardini all’italiana, alberi secolari e le prime macchine agricole che solcarono il suolo del nuovo Fucino.
O Torlonia asciuga il Fucino o il Fucino asciuga Torlonia
Dopo i rallentamenti dei lavori dovuti alla guerra per l’Unità d’Italia, Alessandro Torlonia riprese il progetto affidandolo all’ingegnere Jean Francois Maior de Montricher, lo stesso che nel 1849 aveva portato l’acqua a Marsiglia costruendo, sulla scia delle architetture di epoca romana, il monumentale acquedotto di Roquefavour.
Le paratoie dell’Incile Torlonia furono aperte nell’agosto del 1862, da quel momento le acque del Fucino iniziarono a defluire in direzione di Capistrello e nel fiume Liri. Il prosciugamento fu completato nel 1876 (ufficialmente nel 1878), segnando la fine del lago e l’inizio di una nuova epoca.
Ma il cambiamento climatico fu drastico: scomparso il grande specchio d’acqua, la piana perse il suo microclima mite. Nebbie, gelate e freddi improvvisi rovinarono i raccolti; ulivi, viti, mandorli e frutteti seccarono. Molti contadini precipitarono nella miseria. Lo scontento tra la popolazione fu tale che diversi comuni ripuari votarono per il ripristino del lago e addossarono al prosciugamento voluto da Torlonia anche le cause del terremoto del 1915. Ignazio Silone scrisse:
Il prosciugamento del lago di Fucino, avvenuto circa ottanta anno fa, ha prodotto un notevole abbassamento della temperatura in tutta la Marsica, fino a rovinare le antiche colture. Gli antichi uliveti sono andati interamente distrutti. I vigneti sono spessi infestati dalla malattia e l’uva non arriva più a completa maturazione: per non farla gelare dalle prime nevi, dev’essere raccolta in fretta alla fine di ottobre e dà un vino asprigno come la limonata. Se lo devono bere, per lo più, gli stessi che lo producono.
Il Principe del Fucino e la Riforma Agraria
Alessandro Torlonia intanto fu nominato Principe del Fucino, un titolo inventato appositamente per lui, che di antica discendenza nobiliare non era. Il blasone in famiglia arrivò solo da suo padre in poi, creato Principe di Civitella Cesi e Duca di Bracciano in quei contesti ottocenteschi in cui i potentati ambivano a sembrare anche blasonati.
Dei 15.000 ettari prosciugati, circa 13 mila andarono ai Torlonia e meno di 2 mila alle popolazioni locali, briciole. Silone scrisse che “la conca del Fucino fu sottoposta ad un regime coloniale”:
La poca terra di noi piccoli proprietari era vincolata da ipoteche e rendeva appena per pagare gli interessi dei debiti: per tirare innanzi dovevamo anche noi andare a giornata […] I salari per quanto bassi vi erano sempre dei cafoni costretti ad accettarli per fame […] Dovevano percorrere da 10 a 15 km, alla sera mi sentivo così stanco e avvilito come una bestia.
Solo con la Riforma Agraria del 1950 quei terreni furono finalmente redistribuiti, dopo anni di lotte al grido “La terra a chi la lavora!”. I Torlonia furono espropriati, ma ormai erano tra le famiglie più ricche d’Italia e possedevano anche una cospicua collezione privata d’arte antica che negli anni diventerà la più grande al mondo, dal valore stimato in miliardi di euro, in piccola parte frutto anche dei ritrovamenti archeologici durante il prosciugamento del Fucino.
Altri interventi legislativi si registreranno dieci anni dopo la riforma, ma non furono condivisi dai lavoratori, i quali manifestarono con i trattori davanti alla sede dell’Ente Fucino, istituto nel quartier generale di Villa Torlonia. In questi contesti nacque lo Zuccherificio di Celano (1961), preceduto da quello storico sorto ad Avezzano nel 1902, con 850 operai e fondato dalla Società Anonima Zuccherificio di Avezzano, ovviamente di proprietà della famiglia Torlonia. Simboli di una nuova stagione industriale, i zuccherifici del Fucino sono chiusi da tempo e sono diventati esempi di archeologia industriale.
Dal lago che non c’è più alle antenne che guardano le stelle
Oggi la terra del Fucino è terra benedetta. Da un sacco di grano seminato ne puoi ricavare dieci. È la terra fine e grassa, è senza sassi, è terra tutta piana, al sicuro dalle alluvioni. (Ignazio Silone)
Percorrendo oggi la Ultrafucense 19, il panorama è un mosaico di campi coltivati che sembrano tasselli di un mosaico. Su questa scacchiera di terra si muovono braccianti stagionali, grandi camion carichi di ortaggi appena raccolti, il cui profumo si sente fin sulla strada. Al tramonto piccoli gruppi di pescatori si radunano lungo il Canale 8000 – chiamato così per la sua lunghezza, che arriva fino all’Incile Torlonia – a pescare trote e carpe. Non lontano dall’ex zuccherificio di Celano c’è il bar “Da Nino”, luogo d’incontro di contadini, autotrasportatori e operai. “Vent’anni fa qui era pieno di gente” – mi racconta il proprietario – “arrivavano camion di barbabietole da Vasto e si lavorava dall’alba a notte!”
Oggi nel Fucino sono nate nuove identità lavorative. Per sopperire alla mancanza di manodopera locale, le aziende del posto organizzano voli charter per andare a prendere i braccianti fino in Marocco. All’agricoltura si è affiancata la moderna tecnologia con Telespazio, fiore all’occhiello italiano delle telecomunicazioni satellitari. Proprio qui, dove duemila anni anni fa l’imperatore Claudio, Agrippina e il giovane Nerone assistevano dal palco imperiale alla battaglia navale tra rodiani e siciliani, sarà il Centro Spaziale del Fucino, inaugurato nel 1969. a trasmettere in mondovisione le immagini dello sbarco sulla Luna. E nel 1986 da queste antenne bianche, visibili già dai tornanti della strada che porta al paese di Silone, partì il primo collegamento italiano a internet.

Avezzano – L’unica casa rimasta in piedi durante il terremoto del 1915 – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni




Fucino – Madonnine segna confine e limite delle acque fatte installare da Alessandro Torlonia nel 1862 – Atlante Torlonia, dettaglio della statua della Immacolata Concezione eretta nell’Incile Torlonia e resti della statua nel parco di Villa Torlonia


Scultura di Pasquale Di Fabio (1975) – opera bifacciale in cemento armato. L’installazione funge da architrave dell’attuale Palazzo Torlonia sede dell”Archivio di Stato di Avezzano – Foto Leo De Rocco





Avezzano – Palazzo Torlonia e Villa Torlonia, con il Padiglione e la neviera – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni

Piana del Fucino – l’ex Zuccherificio di Avezzano – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni


Fucino, il Canale 8000 e la Ultrafucense 19 nell’ora del tramonto – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni


Ortucchio – Telespazio Centro Spaziale del Fucino – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni
Capistrello e i suoi minatori
Ora conosco meglio il Fucino, ma in questo viaggio itinerante dentro la sua storia, iniziato sulle rive del fiume Giovenco, passando poi per Pescina, Celano e i paesi ex rivieraschi, fino all’Incile Torlonia e ai Cunicoli di Claudio, manca ancora un tassello. Manca l’emissario del lago scavato dentro il Monte Salviano e manca il paese marsicano che guarda la Valle del Liri, un luogo fondamentale per conoscere la storia del Fucino e della Marsica.
Capistrello, il paese dei minatori, lo raggiungo ovviamente attraversando una galleria, chiamata non a caso Galleria Salviano. In questo angolo dell’Abruzzo, pieno di cunicoli, gallerie e tunnel, scopro anche una curiosa quanto ingegnosa galleria elicoidale, progettata nel 1876, scavata nei monti che dominano la Valle del Liri per permettere l’arrivo a Capistrello della ferrovia, con la linea Avezzano-Roccasecca.
Non lontano dalla ferroviaria elicoidale si trova l’Acquedotto romano Arunzo, da queste parti chiamato “il traforetto”, scavato negli stessi anni dei Cunicoli di Claudio nelle viscere del monte Arunzio, tra Castellafiume e Corcumello, frazione di Capistrello. Insomma, questa è la terra dei minatori.
Un luogo identitario
Nella piazza principale di Capistrello è impossibile non notare il monumento dedicato alla memoria dei minatori capistrellani che persero la vita dentro le gallerie e i trafori sparsi in tutta Italia, dal traforo del Gran Sasso a quello del Monte Bianco.
Un monumento identitario, molto caro ai cittadini. Lo fecero erigere nel 1976, raccogliendo i soldi casa per casa e lo dedicarono alla memoria dei lavoratori che partirono da questo piccolo paese per cercare un futuro migliore per sé e la propria famiglia, ma non fecero più ritorno perché rimasti sepolti sotto una frana mentre scavavano una galleria, vittime di una esplosione improvvisa o schiacciati da un masso mentre costruivano un traforo.
Morti nella polvere, scrive il giovane capistrellanese Gianluca Salustri nel suo libro Pane e polvere – Storia e storie dei minatori di Capistrello (Radici Edizioni). L’autore dà voce ai minatori di Capistrello, quelli di ieri e quelli di oggi, raccontando le loro storie, così come circa un secolo fa Ignazio Silone narrò le vicende dei contadini e degli operai del Fucino, con le loro vite vissute duramente, tra sacrifici e ingiustizie.
I ragazzi di Capistrello, minatori del nuovo millennio, sono ancora oggi in Valtellina o a costruire la linea Blu della metropolitana di Milano dopo aver bucato anche i sotterranei di Roma per la Metro C (4)
Quella del Fucino e delle sue genti non è solo la storia che narra di grandi imprese ingegneristiche, è anche una storia che parla di sudore e fatica, di pane e polvere; di lotte e sacrifici, di operai che non sono più tornati a casa perché vittime di infortuni sul lavoro. Un tema questo purtroppo ancora attuale.
“Morire in fabbrica, nei campi, in qualsiasi luogo di lavoro è un fardello insopportabile per le nostre coscienze. Uno scandalo inaccettabile per un Paese civile”, ha dichiarato recentemente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un pensiero e una denuncia in memoria di tutte le vittime sul lavoro, di ieri e di oggi.
Il monumento commemorativo di Capistrello evoca anche il ricordo della strage dei minatori di Marcinelle in Belgio (agosto 1956), 262 operai morti nell’incendio di una miniera di carbone. Le vittime tra i minatori italiani furono 163 e di questi 60 erano abruzzesi, 22 di Manoppello, dichiarata “Città Martire”.
Un viaggio che arricchisce
E di notte, com’era calmo e lucente il lago, simile ad una striscia d’argento, sotto le finestre del palazzo, alla luce della luna piena, mentre il vecchio castello gettava lunghe ombre sul paese addormentato (5).
Termina qui, a Capistrello, questo lungo viaggio nella storia del Lago Fucino, tra le gallerie e i minatori che ne custodiscono la memoria. Il Giovenco, il fiume sacro per gli antichi Marsi, dopo essere scomparso nelle gallerie fucensi, rivede la luce all’Emissario Claudio–Torlonia: un luogo affascinante, oggi parte di un parco archeologico e naturalistico curato da associazioni locali, con sentieri per passeggiate ed escursioni.
Abbiamo seguito il suo corso immaginando di navigarlo dalla valle d’origine, per poi scendere tra i canali fucensi e le fredde gallerie scavate nel cuore del monte Salviano dagli operai di ogni tempo, fino a questo sbocco, dove incontra il Liri. Un fiume che in questa storia ci ha parlato dell’acqua che scorre come il tempo e la vita, che a volte sorride e altre trascina e consuma (6).
Eppure, mi piace pensare che quel grande lago sia ancora lì, dove i viaggiatori ottocenteschi lo ammiravano, silenzioso e lucente, mentre le barche dei pescatori solcavano l’acqua illuminate dalle lanterne e gli innamorati si baciavano al chiaro di luna.
Leo Domenico De Rocco ‐ Tecnico della valorizzazione dei Beni Culturali ed Ecclesiastici Regione Abruzzo ‐ derocco.leo@gmail.com – Copyright ‐ Riproduzione riservata ‐ Note e fonti al termine della galleria fotografica


Il paese di Capistrello visto dal sentiero che conduce all’emissario del Fucino e la Valle del Liri con i tunnel della ferrovia elicoidale – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni


Capistrello – La galleria scavata nel Monte Salviano e il monumento dedicato ai caduti sul lavoro – Foto Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni






Capistrello, Emissario Claudio-Torlonia, il Giovenco incontra il Liri – Foto e video Leo De Rocco per Abruzzo storie e passioni
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Copyright – Riproduzione riservata – derocco.leo@gmail.com Tecnico della valorizzazione dei Beni Culturali ed Ecclesiastici – Note: 1) cit. da “De Vita Caesarum” di Gaio Svetonio Tranquillo; 2) da “Fontamara” di Ignazio Silone; 3) da “Uscita di sicurezza” di Ignazio Silone; 4) da “Pane e polvere” di Gianluca Salustri; 5) da Edward Lear, agosto 1843, tratto da “Ai piedi del Monte Tino”, di Angelo Ianni, pag. 117; 6) “Trascina e consuma”, da “L’Artefice”, 1960, poesia di Jorge Luis Borges.
Fonti: “Fontamara”, Ignazio Silone, Mondatori 2022 – “Uscita di sicurezza”, Ignazio Silone, Mondatori 2001 – Pannelli informativi percorso museale Casa-Museo Ignazio Silone, Pescina – Archivio Casa-Museo Mazzarino, Pescina – “Pane e polvere. Storia e storie dei minatori di Capistrello”, di Gianluca Salustri, Radici Edizioni 2022 – “Il Parco Torlonia, una storia nel verde”, Gabriele Altobelli, Edizione Carsa 2003 – “Storia del Castello di Celano e del suo Lago”, 1977, Cantelmi Edizioni – “Celano, storia arte archeologia”, Giuseppe Grossi, 1998, Proloco e Comune di Celano – “Historia Marsorum” di Muzio Febonio, in “Abruzzo cultura e letteratura, dal Medioevo all’età contemporanea”, di Gianni Oliva e Carlo De Matteis, Casa Editrice Carabba, 2020 – Inoltre ho attinto informazioni storiche dall’Archivio di Stato Avezzano.
Ringraziamenti: Ringrazio lo scrittore ed editore Gianluca Salustri, Casa Editrice Radici, per la gentile collaborazione. Grazie alla gentile dott.ssa Adriana Rossi, responsabile della biblioteca di Santa Maria Valleverde di Celano per i testi, la documentazione e la disponibilità della sala lettura durante le mie ricerche e i miei sopralluoghi a Celano e nel Fucino. Ringrazio Stefano, addetto custodia e vigilanza del Castello Piccolomini di Celano. Rivolgo un particolare ringraziamento allo scultore e scrittore avezzanese Gabriele Altobelli per la visita guidata a Villa Torlonia, Avezzano.
Abruzzo storie e passioni 2023
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